Deep shit horizon

Era l’estate del 2000 quando m’imbarcai per la prima volta su una piattaforma petrolifera, in quei giorni si stava consumando la tragedia del Kursk nel Mare di Barents.
Fui trasportato a bordo nella gabbia che viene impiegata per il trasporto delle persone dal supply boat al main deck. Sulla facciata del modulo alloggi campeggiava la scritta D.R. Stewart e subito sotto il nome della società proprietaria del rig: Transocean.
Quello che era un nome per gli addetti al settore è in questi giorni sulla bocca di tutti a causa del disastro avvenuto nel GOM (Gulf of Mexico).
Mauro mi ha punzecchiato dicendo che con tutto il casino che era successo, era quanto meno lecito aspettarsi un mio intervento a tal proposito. In realtà l’impeto iniziale c’è stato, ma poi è stato prontamente sedato dall’assoluta mancanza di certezze su quanto fosse avvenuto. Le dimensioni della catastrofe sono state l’unico elemento certo sin dal primo istante sia per la perdita di vite umane che per il disastro ambientale che ne sarebbe derivato.
Il rischio di addentrarsi in disquisizioni tecniche non accessibili ai profani è forte tanto quanto inutile. Ho il sospetto che, sebbene la British Petroleum si sia dichiarata sin dalle prime ora disposta a pagare per tutti i danni derivati, la verità non verrà mai a galla arrecando forse il danno maggiore di questa disgrazia nel futuro prossimo.
Il perché è presto detto: in molti (tra questi anche Scaroni, CEO di Eni) sono convinti che il futuro energetico dell’umanità sia legato alle fonti rinnovabili, prima tra tutte il sole. Il problema è che di questi profeti, nessuno dice chiaramente quanto lontano e costoso sia questo futuro solare (eolico, delle maree e chi più ne ha più ne metta). Non credo che tocchi a me risvegliare l’umanità dal sogno ecologista, ma la dipendenza dagli idrocarburi sarà destinata a caratterizzare la nostra civiltà ancora per un tempo decisamente lungo e, soprattutto, indeterminato. Quindi bisognerà continuare a perforare con tutti i rischi che ne conseguono specie quando il limite della ricerca si sposta decisamente in là.
Purtroppo la statistica è una scienza spietata e gli incidenti non sfuggono alle sue regole, le operazioni error-free sono un’utopia ed il motto “failure is not an option” è solo una maglietta carina da portare a casa dal Johnson Space Center.
Questa consapevolezza, insieme ovviamente ai profitti legati all’oro nero e alla crescita smodata del fabbisogno energetico dei paesi emergenti (India e Cina in testa), ha portato le oil companies a cercare idrocarburi negli angoli più remoti del pianeta e, soprattutto, a profondità sempre maggiori una volta inaccessibili a causa della inadeguatezza tecnologica. Alcuni esperti del settore sostengono che la maggior parte delle risorse di combustibili fossili si trovino a profondità ancor oggi non raggiungibili.
La piattaforma di perforazione Deep Water Horizon rappresentava una punta di diamante dell’industria della prospezione degli idrocarburi ed era impegnata in una perforazione deep water del field denominato Macondo che sembrava avere i presupporti per essere un vero big producer. Le esternazioni a caldo di Obama sullo stop alle perforazioni erano quanto di più scontato ed ipocrita ci si potesse aspettare, delle dichiarazioni ad effetto in perfetto stile insomma.
La dipendenza energetica degli Stati Uniti in termini di idrocarburi è imbarazzante tanto quanto lo spreco quotidiano a base di aria troppo condizionata e motori troppo potenti per “sfrecciare”, quando va bene, a 75 miglia orarie.
Si tornerà a perforare molto presto perché la nostra civiltà non ha un’alternativa da usare già domani. Se è vero che, come si usa dire, l’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre, ci si dimentica però che l’evoluzione verso l’età del bronzo ha richiesto milioni di anni. Il petrolio non durerà certamente così a lungo, ma il passaggio dall’età del petrolio, iniziata appena 120 anni fa, a quella successiva potrebbe non essere lì da venire.

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