Il crollo di un mondo

Ho un amico che per farsi un’idea di un libro legge immediatamente la prima e l’ultima frase. Dal modo in cui si combinano è in grado di dire se questo libro vale qualcosa.
Applicando lo stesso metodo a “La cripta dei cappuccini” ecco cosa viene fuori: Il nostro nome è Trotta. Dove devo andare, ora, io, un Trotta?
Se non sbaglio questo metodo prevede anche una variante. Restringere ulteriormente il materiale a disposizione limitandosi a pochissime parole. Volendo sperimentare la variante otterremmo qualcosa come: Il nostro nome, un Trotta?
Si noterà come anche nel secondo caso il tono è quello della tragedia antropologica: la crisi d’identità culturale slitta nella crisi d’identità individuale.
Ebbene questa è la dimostrazione che, a cercarli, esistono esempi in grado di avallare le teorie più strampalate.

Il romanzo di Joseph Roth descrive l’attimo in cui il barone Francesco Ferdinando Trotta – erede della casata dei Trotta, la stessa cui apparteneva “l’eroe di Solferino”, l’uomo che aveva salvato la vita nientemeno che all’Imperatore Francesco Giuseppe – sente il mondo mancargli sotto i piedi.

Il nostro nome è Trotta. Dove devo andare, ora, io, un Trotta?

Quell’attimo lì, sdrucciolevole, è talmente particolare e irripetibile da cogliere tutti impreparati. Ogni cosa, pur conservando un aspetto familiare, ha in sé una componente nascosta della quale è impossibile non stupirsi, della quale non può non colpire la definitività.
Il mondo che nel libro scompare è quello in cui lo stesso Roth aveva illimitata fiducia, il mondo dell’impero austro-ungarico, il mito unificante e multiculturale nel quale non si distinguevano uomini di diverse nazionalità perché ognuno parlava tutte le lingue, tedesco, polacco, ucraino, yiddish… un patrimonio da custodire gelosamente ed il cui tutore è Francesco Giuseppe, onnipresente tra i suoi sudditi come Dio nell’universo. Alla vigilia della grande guerra l’imperatore sembra ancora eterno. E Vienna, benché da tempo non sia più il cuore pulsante dell’impero, benché sia ormai una città arretrata, grottesca nelle sue decorazioni Jugendstil, banale nel suo conformismo aristocratico (gli Ebrei che non vengono disprezzati dagli aristocratici perché già odiati dal popolino), penosa nella sua decadenza – specie se contrapposta all’energica vitalità della campagna slovena e in generale della periferia dell’impero – Vienna non rinuncia alla sua cornice fastosa. Il vecchio imperatore Francesco Giuseppe, Der Alte – la cui esistenza, al tempo in cui è ambientato il romanzo, è ormai una lenta marcia verso la morte, verso il disfacimento della monarchia, verso la dissoluzione dell’impero – ne è il simbolo. Lui… padre rispettato e governante coscienzioso del popolo, lui ragione indiscussa della coesione di nazioni, nazionalismi e nazionalità.
Sono gli sloveni, i galiziani polacchi e ruteni, gli ebrei col caffetano di Boryslaw, i mercanti di cavalli della Bacska, i musulmani di Sarajevo, i caldarrostai di Mostar che cantano il Dio conservi. È questo il monito del conte Chojnicki, il più maturo membro della compagnia di aristocratici frequentata dal barone Trotta, l’unico – probabilmente – ad accorgersi dei sintomi della rovina che la compagnia si porta appresso, fin dentro i vecchi caffè viennesi, luoghi impregnati dello “spirito della vecchia monarchia”.
Lo sfacelo, insomma, è imminente. Nel 1914 viene diffuso il proclama dell’Imperatore “Ai miei popoli”. Scoppia la Prima Guerra Mondiale. Mondiale, scrive Roth, non perché abbia coinvolto il mondo intero, ma perché ha causato il crollo di un mondo, quello rappresentato dalla monarchia austro-ungarica.

Il nostro nome è Trotta. Dove devo andare, ora, io, un Trotta?

A questo punto tutto si accelera. Il presentimento della fine è una certezza. Trotta si arruola. Sceglie di combattere nelle regioni orientali ma viene fatto prigioniero dai Russi e condotto in Siberia. Torna a Vienna alla vigilia del Natale del 1918 quando l’Impero non esiste più, quando tutto è mutato o sta mutando. Ad accoglierlo c’è la madre, depositaria di rituali domestici, custode di tradizioni apparentemente immutabili, colei che con il suo bastone tiene lontano il disordine. O almeno ci prova perchè i tempi nuovi sono alle porte e nulla riesce ad invertire il corso della Storia.
Il mondo che viene a mancare sotto i piedi. È un attimo. Ed è ben visibile nella scena in cui la madre offre al figlio – al ritorno dalla guerra – delle paste in tutto e per tutto simili a quelle cui era abituato in tempi di pace ma, essendo realizzate con ingredienti diversi (surrogati di quelli originali) assolutamente diverse nel sapore. Oppure nella scena in cui tenta di suonare il pianoforte, dimenticando di averne fatto strappare le corde: ancora una volta il lato esteriore (intatto) nasconde quello interiore (distrutto)
Con la morte della madre – avvenuta simbolicamente durante la notte della rivoluzione – con la scomparsa di quell’ultimo brandello di ordine, Trotta resta solo, incapace di decifrare il cambiamento.

Il nostro nome è Trotta. Dove devo andare, ora, io, un Trotta?

La sua inettitudine è palese davanti alle sedie color “giallo limone” e alle tende arancioni dell’atelier di “arti applicate” di Elisabeth (la donna con cui si era sposato prima di partire per la guerra), prove tecniche di trasmissione dell’avanguardia culturale europea.
Non resta che tornare, ostinatamente, alla vita di sempre, ai luoghi di sempre. È dunque in un caffè che assiste all’ingresso di un giovane che dà la notizia dell’Anschluss, della caduta del governo austriaco e della nascita del governo popolare tedesco. L’impero non c’è più, le sue uniche tracce sono quelle conservate presso la Cripta dei Cappuccini, dove giacciono i miei imperatori, sepolti in sarcofaghi di pietra.

Mauro Orletti

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