Poteva accadere di trovarsi nei pressi di un incendio. Poteva succedere di assistere allo scoppio, essere lì mentre la fabbrica deflagrava. Potevi aver visto il volto di uno degli uomini che poco prima si erano allontanati con non troppa calma dalla zona. Riconoscerlo, adesso, tra il fumo, le sirene, i camion, le squadre di soccorso. Vedere emergere quel volto di poco fa sopra l’arancione della giubba indossata dal primo pompiere sceso in strada, mentre sistema l’elmo sulla testa. A quel punto la situazione era chiara. I giornali a volte scrivevano di cose del genere.
Chelsea, cittadina dello stato del Massachusetts, negli anni ottanta era caduta in una corruzione estrema. Che i vigili del fuoco appiccassero gli incendi in cambio di tangenti sui premi assicurativi incassati dalle aziende fallite, fu soltanto uno dei modi molteplici attraverso cui la corruzione si impossessò della città. Gran parte dell’amministrazione era corrotta, frange del corpo di polizia anche. Il racket non era combattuto ma agevolato, e ciò che garantiva l’accesso ai servizi pubblici era l’essere inserito in una rete di rapporti clientelari, o in ogni caso conoscere “qualcuno”. Ma non solo questo. Chelsea è una città composita, etnicamente eterogenea. Gli abitanti di diversi quartieri, negli anni in questione, non usufruivano degli stessi servizi. Fu tale la disparità di trattamento nella offerta di servizi che, quando si rifece la pavimentazione stradale dell’intera città, gli abitanti degli angoli più poveri uscivano dalle case, osservando con mistero il lavoro del rullo compressore. Non ne avevano mai visto uno. Vi era isolamento, non esisteva una dimensione del pubblico. Gli uomini e le donne di Chelsea erano separati, avulsi dagli ingranaggi dell’agire sociale.
Fu per tutti questi motivi e dopo che era stata sfiorata la bancarotta per un deficit di oltre dieci milioni di dollari su un bilancio di quaranta, che Chelsea fu posta, nel 1991, sotto la gestione commissariale. Iniziò un periodo molto buono, in cui maturarono condizioni migliori per il ripristino della legalità. Ma non bastava. Bisognava rompere radicalmente col passato, e ciò voleva dire dotarsi di un nuovo statuto per la città. Quello vigente risaliva al 1903. Era stato scritto in seguito a un incendio che aveva distrutto tre quarti della città. Si sosteneva che, nella situazione attuale, quello strumento giuridico – prodotto di un stato emergenziale – non garantiva più una intelaiatura istituzionale adeguata alle esigenze del buon governo. Tra gli aspetti più controversi risultava la sovrapposizione di poteri e competenze tra organi distinti, prefigurata in certi casi.
Il primo commissario James Carlin affidò il compito di scrivere un nuovo statuto a un esperto. Ma Lewis Harry Spence, colui che subentrò, comprese una cosa fontamentale. Capì che per trasformare una macchina politica corrotta fino al midollo, e in preda alle cosche, in una struttura municipale al servizio dei bisogni della gente, di una popolazione così eterogenea coma quella di Chelsea, occorreva qualcosa di diverso, di più radicale. Allora Harry – così lo chiamavano – si convinse che, perché fosse sostenuto, il nuovo statuto doveva essere conosciuto, occorreva sapere cosa v’era scritto. Verum ipsum factum, come diceva Vico. Vero e conoscibile è ciò che si fa, allora bisognava che i cittadini scrivessero da sé il nuovo testo. L’idea era che, oltre a scrivere un nuovo statuto municipale, s’impegnassero i cittadini nella creazione di norme innovative di autogoverno. La stesura dello statuto doveva rappresentare ad ogni costo l’occasione per introdurre e imparare l’autogoverno. Non si doveva attendere più la buona sorte, ma avviare una nuova stagione di protagonismo politico: “Voglio un processo che penetri in profondità nella comunità, cercandone attivamente la partecipazione”.
Le idee sono banali e generiche se non le suffraghiamo con dei discorsi ben circoscritti intorno alle tecniche, gli strumenti, le metodologie da seguire per realizzarle. Di democrazia si può parlare solo a questo livello. Se no è un esercizio di stile, un gioco da ragazzi che civettano col popolo.
Infatti a Chelsea hanno condotto sino in fondo il processo di stesura del testo, sono giunti al referendum e alla presentazione del documento al governatore dello Stato del Massachussets: non solo perché chi deteneva il potere ha cercato la gente, ma soprattutto perché lo ha fatto seguendo un’impostazione teorica molto precisa e dettagliata. La partecipazione ha avuto successo poiché organizzata secondo competenze di alto livello.
Furono contattati esperti che lavoravano al Programma sulla negoziazione (Pon). Susan L. Podziba fu incaricata di guidare il processo di stesura dello statuto. È lei stessa a raccontare tutta la vicenda nel libro Chelsea story. Susan ritenne utile fondere il proprio approccio mediativo con quello dell’amica e collega Roberta Miller, esperta invece sulla promozione dal basso del coinvolgimento dei cittadini. Roberta aveva il compito di identificare e coinvolgere le reti di associazioni già esistenti sul territorio, raggiungere tutti quei posti abitualmente frequentati dalle persone e dove formano le proprie opinioni. Si discusse di negoziati posizionali e di quelli legati agli interessi, di massimizzazione della soddisfazione nell’accordo. Si discusse di tutti gli strumenti di creazione del consenso nelle politiche pubbliche e fu esplicitato un vero e proprio impianto teorico, sulla cui base fu condotto il processo di stesura dello statuto. Susan disegnò una mappa pittorica in cui indicò preventivamente le tappe del processo, il cui percoso fu quasi perfettamente rispettato nella pratica. Insomma, quando nel 1994 fu approvato il nuovo statuto e nel 1995 terminò la gestione commissariale, i cittadini di Chelsea potevano finalmente osservare in ciò che era stato istituito qualcosa di se stessi. Sapevano come avrebbero funzionato gli ingranaggi del potere municipale. L’avevano concepito. L’avevano scelto. L’avevano implementato. Le loro idee erano state rese operative: avevano costruito, inventato, la propria realtà, attraverso però la competenza di chi studia le modalità congeniali a processi del tipo di Chelsea.
V’è qualcosa da invidiare a chi ha vissuto una simile esperienza, la possibilità di contare per un momento su delle strutture. Noi al massimo possiamo guardare con interesse a delle individualità encomiabili. Possiamo apprezzare persone come Ippazio Stefàno, il sindaco di Taranto che organizza una colletta tra amici per comprare l’acqua e donarla alla gente, quando la sua città è in piena crisi idrica. Ma mai possiamo contare su strutture e competenze specifiche. Così il richiamo a forme pure di democrazia, al coinvolgimento di massa nelle dinamiche decisionali, sono una bandiera all’orizzonte. Non abbiamo le competenze per dire come ciò vada fatto. Manca la risposta al come. E non v’è libertà. Poiché non è per niente vero che è libero chi con agilità si sbraccia. Si è liberi quando, creando il proprio contesto, si è capaci di riconoscere le forme oggettive dell’esistenza, le istituzioni, i governi, i comitati, le costituzioni. Libertà è l’infinito bisogno di concretezza, coincide col suo concretarsi. La libertà è oppositiva, coinvolge l’uomo nei suoi rapporti lancinanti, nel suo muoversi tra i fuochi. Che siano i propri o quelli che altri hanno appiccato, son convinto che essere liberi è creare e spegnere gli incendi.