Far la spesa in officina

“Siamo ai Giardini Margherita, seduti su un prato appena tagliato; fra lo splendore giallo s’alza un profumo compatto, molto padano, del fieno falciato, a cumuli, che si sta asciugando. Poca gente, solo presenze colorate di donne e ragazze che camminano qua e là. Noi tre seduti parliamo di una rivista che vogliamo fare, che dobbiamo fare. Il nome già proposto è Eredi. Parliamo con una leggerezza che è felicità, per una cosa finalmente importante; per una decisione nostra che dovremo realizzare impegnandoci. Ci sentiamo infervorati. Passa un uomo in bicicletta, è in borghese; adagio, cerca con la testa; ha bisogno di parlare? Ci vede, si avvicina, non si ferma; dice a voce bassa: Hitler ha invaso la Russia. È il 22 giugno del ’41 e noi eravamo fuori dal mondo.”
Chi parla è Roberto Roversi e quando dice “noi” dice Pasolini Leonetti e (appunto) Roversi.
La storia ha inizio nel ’47. Roversi, allora studente, prende una decisione un po’ assurda e acquista in blocco venti sacchi di iuta, tutto quel che resta di una biblioteca nobiliare in rovina. Da uno dei sacchi estrae un libro a caso: il Palmaverde (annuario di casa Savoia). Un battesimo dadaista per la neonata Libreria Palmaverde.
Con la guerra Leonetti da una parte, Roversi dall’altra (in senso esclusivamente geografico) Pasolini sfollato a Casarsa. I primi a ritrovarsi sono Leonetti e Roversi, poi – verso la metà degli anni cinquanta – li raggiunge anche Pasolini. P.P.P. allora ha 33 anni, lavora a “Le ceneri di Gramsci” e “Passione e ideologia”, da insegnante precario in una scuola di Ciampino è diventato un affermato sceneggiatore cinematografico, ha pubblicato il primo capitolo di “Ragazzi di vita” su Paragone e l’editore Garzanti gli spedisce un assegno mensile come anticipo sul resto del romanzo.
Sono trascorsi quasi 15 anni da quel giorno ai Giardini Margherita e da allora le cose sono cambiate parecchio. I tre amici e compagni di liceo decidono comunque di realizzare il vecchio sogno: quello di una rivista letteraria. La chiamano Officina e sul retro del primo numero, uscito nel maggio del 1955, scrivono:

fascicolo bimestrale di poesia
redattori: Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi
ufficio: via Rizzoli 4, Bologna

Il formato è 215 X 140 mm., le pagine sono 40, il costo è di 300 lire per una singola copia, 1500 lire per l’abbonamento annuale. La rivista viene finanziata dalla Libreria Palmaverde di Roversi. Legale responsabile è invece Otello Masetti, che lavora alla Libreria Cappelli.
La prima serie della rivista non supera le 600 copie, con una diffusione molto limitata ed anche molto esclusiva. Successivamente, per risparmiare a Roversi i costi di Officina, la rivista viene affidata a Bompiani.
Nel 1973, in un pezzo intitolato Una rivista polivante, Pasolini dice che niente dovrebbe essere più datato di Officina ma che, in realtà, niente lo è di meno. Dovrebbe essere un fossile degli anni cinquanta, e invece no. Le ragioni sono tante. C’è anzitutto la sua capacità di anticipare fenomeni che, mentre Pasolini scrive, sono ancora attuali (“la rivangelizzazione marxista, il razionalismo gauchista?”). C’è la sua attitudine a porre problemi e formulare soluzioni “possibili e molto stringate” all’interno di una sintesi quasi sperimentale. C’è la sua polivalenza, regalo prezioso delle diverse individualità dei redattori: Leonetti, che si diverte a sparigliare, a scombinare i riferimenti di un’ideologia che, dice Pasolini, “aspira ad essere se non dogmatica o ortodossa, certamente corretta”; Fortini, costantemente impegnato a rivedere criticamente ogni posizione raggiunta perché, in quanto tale, potenzialmente pragmatica e, quindi, imperativo morale che – proprio nel pragma – indica “l’unico ribollente fornitori di nuovi temi (la contestazione, per esempio)”; Roversi, che in quel pragma riconosce invece un “oscuro-luminoso nettare conoscitivo, esternamente deludente”. Quanto al proprio ruolo in Officina Pasolini tace. Anche perché, scrive, “chiunque potrebbe apprestarmi una didascalia pubblicamente attendibile”.
Quando Leonetti torna a parlare di quell’esperienza dice che Officina è la prima rivista letteraria a rompere con l’ermetismo. Il movimento Neorealista, deflagrato come contingenza dell’immediato dopoguerra, come inestinguibile “fame di realtà”, sposta la discussione, in letteratura e anche nel cinema, su problemi connessi con la realtà: la realtà della guerra, del conflitto e della resistenza. Ma il Neorealismo, che nel cinema ha dato vita a capolavori assoluti, in letteratura non è altrettanto generoso. Pasolini, continua Leonetti, sente l’urgenza di una rottura definitiva con l’ermetismo, una rottura che passa anche attraverso l’esperienza espressionista della Voce. Officina diventa un espressionismo sperimentale che cerca, attraverso la contaminazione della lingua colta con gerghi, termini tecnici, dialetti e asimmetrie, di raggiungere nuovi e sorprendenti esiti letterari. Ovvio che un prodotto del genere non possa far gola alla grande editoria, che difficilmente si imbarca nella pubblicazione di riviste letterarie classiche. Officina, per giunta, è una rivista d’avanguardia che opera scelte rischiose, roba da comunisti. Ma nel ’56, all’indomani dei fatti di Praga, non si può far finta di niente, bisogna accollarsi l’onere di una critica autorevole e intransigente nei confronti del PCI e dell’elemento stalinista che in esso mette radice.
Se si accetta la semplificazione si può dire che Pasolini, Leonetti e Roversi sono contro Togliatti – a sua volta “in polemica terribile con l’arte d’avanguardia” e con Vittorini – e dalla parte di Gramsci. Leggono e commentano le “Lettere dal Carcere”, apparse nel 1947. Nel solco di una contraddizione insita nel PCI e portata avanti da Secchia (unico dirigente operaio vicino alle posizioni degli intellettuali di Officina) fanno propria la visione gramsciana che – a volerlo – potrebbe guidare il cambiamento socio-culturale dell’Italia degli anni ’60.
Se si accetta la semplificazione la domanda può essere: Secchia avrà la meglio su Togliatti? No, risponde Leonetti, non l’avrà.
L’ultimo numero di Officina, il secondo della nuova serie, esce nel maggio-giugno del 1959.
Roversi, comunque, darà vita a molte altre operazioni e fra queste Rendiconti e, nel 1969, Le descrizioni in atto. Quest’ultima è un’auto-pubblicazione, di più, una scelta doverosa non per l’assenza di editori cui far riferimento, ma per la necessità di scavalcare i meccanismi culturali istituzionali. Quelli che, altrimenti, non permetterebbero al poeta-libraio un ragionamento obiettivo su quanto sta accadendo dentro e fuori di essi, in termini di nuove forme di comunicazione ma anche di loro commercializzazione.
Dopo l’attentato dell’agosto 1980 alla stazione di Bologna, Roversi fonda la Cooperativa culturale Dispacci, segno di un impegno – che non è mai venuto meno – nel campo della politica, della comunicazione e della poesia.
Ora, dopo sessant’anni, la libreria Palmaverde chiude. I ventimilatrecentodue volumi (senza contare manifesti, stampe, riviste, manoscritti) vengono acquistati in blocco da Coop Adriatica. “Per tutelare e valorizzare il patrimonio librario” ho letto. Sì. Però. La Coop sei tu. E a me corrono brividi lungo la schiena.

Mauro Orletti

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