Il mio petrolio

Sale l’oro nero
Sale l’oro nero
Tengo d'occhio il prezzo
Tratto il prezzo
Accomodo il prezzo
Gonfio il prezzo
E... vendo.

L’oro nero puzza. Credo di averlo sentito solo una volta. Tra i campi di finocchi del Molise. Nonostante il puzzo, traina come null’altro, anche di più di quella roba che sembri tirar più d’un carro di buoi. Ed è una bella lotta, allora: l’econonia globale e le guerre locali, la guerra globale e le ecomie locali, TG, economisti, Dow Jones & Co. C’è sempre un accenno, un riferimento o un legame più o meno indiretto. Il più delle volte diretto.

Eppure, signori miei, dicono che finirà. Io mi tocco i maroni e non tanto perché la macchina mi toccherebbe lasciarla in garage (per andare in giro dovrebbero bastarmi le due bici che ho) e neanche per il riscaldamento (ho una nostalgia del camino della casa di campagna che non potete immaginare, anche del puzzo – coincidenza?? – di cenere che ti rimane attaccato addosso).

No signori, Incamminati e non. Io mi tocco perchè il petrolio mi da lavoro.

Vent’anni fa le cassandre dei cinque continenti gridavano che “al massimo” i giacimenti più grandi avrebbero erogato per altri venti anni appunto. Mi assento un attimo per andare a frustare lo schiavo negro (mi si conceda il termine assoultamente politacally uncorrect ) perché deve aver smesso di pedalare ed il generatore di corrente va a singhiozzi. Con buona pace dei fratelli neri, e della mia e vostra corrente elettrica, non c’è bisogno di alcuna frusta. Chi di voi è assediato da incubi notturni su di un mondo senza energia, farebbe meglio a procurasi un gatto a nove code, dato che servirebbe una muta di schiavi per far andare l’aria condizionata, la tivvù ellecciddì, ed il piccì.

In uno spazio dedicato alle chiacchiere, a tutto ciò che è altro rispetto a Momento critico, Asilo politico ecc… non ci dovrebbe essere spazio per qualcosa che sembra essere diventato tutto. Fuorché Altro. Altro è quello che accade lontano dai mercati azionari, dai grattacieli di Houston e NY, dai pensieri di ogni CEO dell’oilfield… Altro è il filippino che ti guarda “storto” dall’altro del suo metro e quaranta di là dal bancone perché, nonostante l’insormontabile barriera linguistica, gli sembra di cogliere nel tuo sguardo del ribrezzo per la prelibatezza che ha preparato per la seconda cena, quella che di solito va in scena da mezzanotte alle due. Altro è l’unico cucchiaino per mescolare caffé solubile e zucchero: lo stesso per un’ottantina di persone, si salvano solo i raccomandati. E poi sempre il maledetto coonass di turno che, tabacco da masticare sempre infilato in bocca, trasforma in una sputacchiera il pavimento per un raggio di un buon mentro e mezzo attorno a sè, in un trionfo di baffi ingialliti e denti che ormai non puoi più neanche definire tali. Di fronte a ciò l’accento quasi incomprendibile, è il minore dei mali, eppure ti tocca stare lì, operare e co-operare con il tipo che sputa ogni due o tre godamnit!! e tu, probabilmete, non ricordi più neanche l’odore del materasso della tua camera cieca per quattro persone. E non è detto che sia un male…

Le cosiddette piattaforme petrolifere sono più o meno così, con tutte le varianti del caso, come i turchi che fumano fino a non riuscire più a vedere lo schermo del pc ad un palmo dal naso, oppure l’infermiere finocchio che viene di notte a sedersi in camera tua e ti fissa che se apri gli occhi ti viene un infarto. Se ti va bene c’è il sole ed il mare è calmo: ti guardi attorno e magari scorgi la costa. Se non la vedi è meglio, altrimenti la nostalgia diventa forte. Sembra come una prigione, ed il branco di delfini che vedi giocare sotto il pelo dell’acqua ti ricorda che loro sono liberi, tu no. Non sei libero di lavorare “solo” otto ore perché una piattaforma costa tanto e non ci si può fermare mai. Parlare di 250mila dollari al giorno è assolutamente veritiero, così tirate di 24-30 ore diventano quasi routine durante le quali sei chiamato a dure scelte del tipo: un pessimo pasto frugale o una breve doccia per lavare via un po’ di fatica? Sempre in agguato la pioggia, il freddo e gli imprevisti a 9mila piedi di profondità.

Che sia un mondo tutto strano lo capisci subito. Arrivi ed impari subito nomi come cat walk, dog house, monkey board, mouse hole fino all’irriverente donkey dick. Ti viene quasi il sospetto di essere solo uno dei tanti animali presenti… L’unica filosofia che tiene su il morale della truppa è la solita one more day, one more dollar. Un giorno ti dicono “oggi scendi”. Ed allora chiedi impaziente “Barca o elicottero???”. L’elicottero non mi entusisasma. Come insegnano al corso di sopravvivenza (dove ti capovolgono a testa in giù in una piscina come per simulare un ammaraggio) in caso di chopper crash al 90% sei morto prima di impattare con l’acqua. Ma quando torni a casa a queste cose non ci pensi. Qualcuno, se sei fortunato, ti aspetta. I meno fortunati hanno ad attenderli solo dei gran boccali di birra a dare il “giusto” contributo alla cirrosi epatica. Finalmente metti i piedi a terra, ti levi la tuta che dovrebbe salvarti dall’ipotermia in caso di necessità (nel mare del nord, in inverno, sopravvivi solo qualche minuto) e vai a trovare il “capo” comodamente seduto nel suo ufficio caldo in inverno e fresco in estate. Il più delle volte non ti chiede neanche com’è andata. Se ti fa una domanda è per sapere quanti soldi “hai fatto”. Come per una prostituta, se ti chiedessero che lavoro fai, avresti difficoltà a spiegarlo.

Torni a casa, hai più di cento giorni di ferie mai godute, cazzo almeno due giorni non me li leva nessuno stavolta. Ti getti sul divano ed accendi la TV satellitare. Hai pagato per un mese intero l’abbonamento a SKY senza mai accendere la televisione: Canale 500, ci sono le news 24 su 24. Vediamo cos’è successo in nostra assenza.
Cosa volete che sia successo? Il brent ha stabilito un nuovo record.

Soffio sul prezzo
Mi adatto al costo
Taglio il tasso
Vola il greggio...
E allora..

(I. Fossati, La Cinese)

Riparto!

Alessandro Boldi

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