C’è da augurarsi che “Sragionamenti sull’anarchia”, ultimo libro di Paolo Morelli edito da Italo Svevo, sia un notevole insuccesso. Sarebbe la sorte più coerente per un libro sull’anarchia. Se vendesse poco, fosse ignorato dalla critica istituzionale e venisse dimenticato negli scaffali delle grandi catene librarie, vorrebbe dire che ha pienamente raggiunto il suo scopo, non limitandosi a discettare d’anarchia ma offrendone un esempio perfetto. Anarchico l’argomento, anarchico il libro, anarchico l’autore, anarchico anche il potenziale lettore. Insuccesso garantito, insomma.
Del resto, scrive Morelli, l’anarchico è un disgraziato che ambisce a rimanere tale. Qualunque desiderio d’elevazione puzza di tradimento. Al contrario, restare nella posizione più scomoda possibile, fronteggiare delusioni, sconfitte, patimenti e persecuzioni, abbandonarsi alle risse, ai tafferugli, alle guerre perse in partenza, in conclusione, restare fedele al proprio mondo – come certamente ha fatto Errico Malatesta (che nel nome porta anche un destino) – consente all’anarchico di rimanere vivo, acceso, pronto a riconoscere il sublime ovunque si nasconda. Quindi, conclude Morelli proseguendo il discorso che aveva cominciato con “La postura del guerriero” (Luca Sossella Editore), l’anarchico è tutto meno che furbo. Se fosse furbo, se avesse un briciolo di senso della realtà, si adeguerebbe. Invece no, non si adegua, predilige la fantasia, la lotta al senso di realtà.
Uno così non dorme sonni tranquilli. Ma l’anarchico, ricorda Morelli (citando Malatesta), non vuole stare tranquillo. Si agita, sale sulle barricate, si mette alla testa di rivolte e sollevazioni. Lui davanti, nessun altro dietro. All’inizio, in verità, sembra esserci partecipazione, poi però da una parte a quell’altra delle barricate prevale il senso della realtà, cioè il bisogno di stare tranquilli. Che subito s’accompagna a un altro strano desiderio: quello d’essere sudditi dei peggiori tiranni, schiavi dei più scarsi governanti. Per spiegarne la ragione Morelli evoca alcuni insospettabili perturbatori di sonni, ad esempio Étienne de la Boétie e Michel de Montaigne, peraltro ottimi amici. Del primo cita il “Discorso sulla servitù volontaria” nel quale si dimostra che l’uomo non vuole affatto la libertà. Del secondo riprende l’idea che il deragliamento dello spirito dell’uomo, a causa del quale è ben accetta ogni schiavitù, derivi dal rifiuto del proprio corpo («Moi, qui ne manie que terre à terre, hais cette inhumaine sapience qui nous veut rendre dédaigneux et ennemis de la culture du corps»).
Dall’essere in pochi sulle barricate, quindi, si passa in breve all’essere soli. Il fatto di volersi sottrarre al giogo (potremmo anche dire al gioco), provoca naturale risentimento e smodata avversione nella maggioranza rumorosa, quella che, evidentemente, preferisce offrire il collo alla catena. Infatti, nella convinzione che l’uomo sia portato a far del male, che cioè si comporti come una belva in natura, è ormai accettato l’uso della catena, tanto dai governanti quanto dai governati. Poi c’è l’anarchico, che passa la vita a combattere questo gioco (potremmo anche dire giogo) di ruoli. E a proposito di giochi di ruolo, in un capitolo del libro si racconta del leggendario re Ferdinando V di Bulgaria, detto l’Anarchico, che, in quanto anarchico, progetta e realizza continui attentati contro se stesso (il sé stesso monarca). Fino al grande successo: la morte del re per mano del regicida ma anche del regicida per mano del re. Del resto lo abbiamo detto, l’anarchico (dunque anche Morelli) preferisce un racconto leggendario a un presunto mondo reale.
Nel presunto mondo reale il potere è esercitato dai più scarsi, dai più inadeguati, che cercano in questo modo di vendicare la propria inettitudine. E questo potere è diffuso, multiforme, letale. L’anarchico, dunque, avrebbe buone ragioni per essere affetto da cronico pessimismo, eppure è pieno di fiducia. Fiducia nella possibilità di deviare dalla norma, divagare e delinquere.
L’anarchico è un delinquente, non usa la ragione per conoscere il mondo, segue l’intuito, salta di palo in frasca, sbaglia spesso e volentieri e cambia direzione. Del resto, fa notare Morelli, l’anarchico ad honorem Robert Louis Stevenson diceva che il nostro scopo nella vita non è avere successo ma continuare a fallire («Our business in this world is not to succeed, but to continue to fail, in good spirits», da “Riflessioni e osservazioni sulla vita umana”).
Occorre perciò prendersela comoda, perdere tempo, fare marcia indietro se necessario. Con questo atteggiamento tutto diventa familiare perché di tutto si può fare esperienza (usando il corpo). Non c’è soluzione di continuità fra esterno e interno. Se usasse la ragione, l’uomo tenderebbe a distinguere una cosa dall’altra, dall’altra e anche da sé, separando, creando fratture. A cominciare dalla frattura fra mente e corpo, che invece dovrebbero andare a braccetto, anzi, il corpo dovrebbe guidare la mente. Perché, recuperata la nostra parte di natura, sarebbe assai più semplice agire, assecondare il funzionamento delle cose. Il mondo, infatti, non è quello che ci raccontano, ma quello che è, quello di cui si fa esperienza. E qui, giustamente, Morelli chiama in causa il fotografo Luigi Ghirri, il cui pensiero visivo – che asseconda la tendenza umana ad andare verso le cose, a trasformare un semplice scatto in una proiezione affettiva – è certamente anarchico. La proiezione affettiva rompe la barriera fra esterno e interno e permette di conoscere il mondo per quello che è: campagne nella nebbia, spiagge deserte, altalene immobili, saracinesche abbassate, scrivanie perfettamente ordinate.
Intanto tutti si domandano come salvare questo mondo, e si danno risposte, formule apparentemente perfette che però sono del tutto fallaci. Per cercare delle risposte Morelli propone altre domande, i kōan, cioè quesiti irrisolvibili razionalmente. Perché? Perché, come dice Zhuang Zi, anarchico eminente: «Al mondo tutti sanno cercare ciò che ignorano, ma nessuno sa cercare ciò che già sa. Tutti sanno disapprovare ciò che non approvano ma nessuno sa disapprovare ciò che approva. Di qui la grande confusione».
È questa la parte più originale del libro, quella che individua la strettissima parentela fra anarchia e quella che chiamiamo, con eccesso d’approssimazione, filosofia orientale. Questa relazione è evidente nel modo di stare al mondo, nel re-imparare la naturalezza del non conoscere (non conoscere attraverso la ragione), nello s-ragionare, nell’essere in grado di non fare, nell’accettare l’influenza del corpo sullo spirito, nell’ammettere che la propria coscienza è parte della Natura, nell’assecondare l’ordine naturale delle cose e nel rifiutare qualunque altra legge. La chiamano delinquenza, appunto. Ma Morelli, con il suo libro, ne ha fornito una definizione certo migliore: anarchismo strepitoso.
[Paolo Morelli, Sragionamenti sull’anarchia, Italo Svevo 2024]
