Pregavo Harlyg Haarakan di concedermi un gregge di mille capi; dovevano essere tutte pecore dalla testa nera e con le orecchie mozze, e dovevano essere proprio mille non una di meno!
«Mille pecore, sai quante sono?» chiedevo rivolto ad Arsylang. «Sono tante quante tutte insieme le dita delle mani di cento uomini!»
Guardavo Arsylang e mi pareva di scorgere sul suo muso un sorriso. Sì, sarebbe stato proprio divertente vedere accorrere tutta quella gente e contare le loro dita! Allora Amyi, che i suoi genitori aga e noi bambini chiamavamo eshej, esclamerebbe: «Cielo! questa sì è una cosa straordinaria! Così piccolo e già sa contare fino a mille!»
Magari non tutto sarebbe andato liscio senz’altro. Con Gokasch e Dupaj, ad esempio, bisognava stare attenti: se c’era Gokash le dita sarebbero state mille e una, con Dupaj invece novecento e novantanove; ma con tutti e due insieme invece si arrivava esattamente a mille. Gokasch infatti aveva la mano sinistra con sei dita e la destra di Dupaj ne aveva soltanto quattro. il primo era nato così, mentre Dupaj aveva perso l’indice per un incidente nel lancio del lasso.
E poi, in caso di bisogno avremmo potuto contare le dita dei piedi, che sono pur sempre dita. In tal caso sarebbero bastate cinquanta persone, invece di cento. ma chissà se tutti si sarebbero lasciati convincere a togliersi gli stivali?
Mille dita! Che numero enorme! Chi infatti aveva più di mille capi era un baj. Il nonno lo era stato. Il babbo invece non lo era. Anche Stalin non lo era stato, benché fosse stato un uomo molto potente. «I tempi dei baj sono passati», diceva il babbo, «oggi per quanto uno si dia da fare, non arriverà mai a mille capi di bestiame!»
[Galsan Tschinag, Il cielo azzurro, AER 1996]