Quando qualcuno mi consiglia un libro sono molto diffidente: verso quel qualcuno e verso il libro che mi ha consigliato. Se per esempio vengo invitato a leggere un certo romanzo perché bellissimo, ho una strana reazione. Non so descriverla ma posso dire che è uguale a quella suscitata dal consiglio opposto, cioè di non leggere un certo romanzo perché bruttissimo. Bellissimo o bruttussimo, per me, sono esattamente la stessa cosa, cioè aggettivi che non significano nulla.
Ai libri, se possibile, cerco di arrivare per vie traverse. Appassionandomi a un certo argomento, sentendone parlare durante una conversazione alla quale sono del tutto estraneo, vedendolo in mano a una persona che stimo particolarmente, adocchiandolo per caso nella vetrina di una libreria o sullo scaffale a casa di un amico.
Vie traverse e, come si vede, infinite.
La prima cosa che voglio dire su “Stoner” di John Williams è che non riesco a immaginare nessuna via traversa che possa condurmi dalle sue parti. E lo dico nonostante il successo riscosso dal romanzo dopo la sua ripubblicazione (credo fosse il 2005). Quando la fortuna di un libro è così clamorosa dovrebbe essere facile imbattersi nelle sue pagine.
Ma “Stoner” è uno strano oggetto con la tendenza a nascondersi. Perchè libro e protagonista – oltre a condividere il nome – condividono la stessa natura. Una natura ritirata, estranea ai grandi eventi, talmente liscia da non ammettere alcuna alternativa alla semplice progressione cronologica. Nessun intreccio, nessun colpo di scena, nessun acuto.
Quando arriva la guerra, il mondo di Stoner si fa minuscolo, ristretto alla semplice contabilità di chi parte e di chi ritorna. Mezzo secolo di storia condensato in un matrimonio sbagliato, una carriera stentata, amicizie perdute o bloccate. Fatti dei quali importa poco o nulla, al protagonista, al narratore, al lettore. E, in quanto tali, allineati sulle pagine ed osservati senza alcuna enfasi, all’interno di una quotidianità che ha i colori dell’autunno o dell’inverno, dei corridoi universitari o delle copertine sbiadite dei libri delle biblioteche.
Stoner insegna letteratura inglese all’università, ma i suoi corsi, le sue pubblicazioni, i suoi studenti e i loro lavori non hanno alcuna importanza. La letteratura inglese, perfino i sonetti di Shakespeare, sono solo materia inerte. Il che, ed è una cosa stupefacente, ne riduce le proporzioni fino a renderle compatibili con l’orizzonte silenzioso e ravvicinato di Stoner.
Ed è in questo ripiegamento che prende forma qualcosa di molto simile a un significato. Nulla di universale, per carità, ma essenziale. Che non vuol dire irrinunciabile, anzi. Vuol dire che permette di far coincidere l’unicità dell’uomo con la normalità e impersonalità delle sue azioni. Ed è una coincidenza enorme e sbalorditiva. Perché comprensibile e, al tempo stesso, talmente sofisticata da rendere accessibile il mondo intero, meglio, da permettere l’appartenenza al mondo intero.
Sicché, senza alimentare un io ipertrofico (e in fondo illusorio) che a tutto si interessa e a tutti vuole interessare, e anzi ritirandosi e rimpicciolendo fino quasi a scomparire, Stoner allontana ogni altro da sé (al quale è indifferente) e avvicina il senso complessivo di quella alterità al significato ultimo della sua vita. Minima, semplice e lineare. Che si svolge in autunno e inverno, si esaurisce in estate, non prende vie traverse, non arriva mai dalle mie parti.
Allora, a differenza di Stoner – la cui intera esistenza è una miracolosa relazione fra massimo avvicinamento e radicale allontanamento da tutti gli elementi di cui si compone il mondo – le mie parti sono le mie parti, lontanissime dalle sue e da quelle di tutti gli altri. E solo in certi momenti, purtroppo rarissimi, riassumono ed esauriscono la mia identità. In uno di questi momenti è capitato che un amico mi abbia detto: leggi “Stoner”, è un libro bellissimo.
Mauro Orletti
[John Williams, Stoner, Fazi 2012]
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Non ho capito tutto, ma condivido l’impressione.
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