In modo imperfetto

Non so quante volte ho messo mano a questo pezzo su “Vita di Lidia Sobakevič” di Giovanni Maccari (Edizioni Pendragon, 2014). Dopo aver letto il libro ho subito provato a scriverne. Mi ero appuntato alcune note direttamente sulle pagine. Le avevo cucite assieme ma il risultato era stato alquanto deludente. Mi sembrava di non essere in grado di mettere a fuoco la sostanza del romanzo. Fatto alquanto strano dato che lo avevo appena letto, ne avevo un ricordo molto netto, ero entusiasta di scrivere qualcosa su un libro incantevole.

Ora, rileggendo le prime cose buttate giù, mi accorgo di aver zigzagato fra una serie infinita di particolari che però, a essere onesti, mancavano di un coordinamento logico e alle volte erano addirittura in contraddizione. Sicché si potrebbe azzardare che per scrivere un articolo su “Vita di Lidia Sobakevič” occorra una certa distanza temporale dal momento in cui si è finito di leggerlo.

Nel mio caso è certamente vero: ho dovuto attendere, lasciare che certi dettagli sbiadissero e che altri, ai quali non avevo dato grande importanza, venissero a galla in modo arbitrario.

Per quanto personale, ritengo questa esperienza di lettura del tutto coerente con l’aria generale del romanzo e con la vita particolare di Lidia Sobakevič. Una vita spesa nel tentativo di restituire all’opera del padre Michele, uno scrittore russo emigrato in Italia, il giusto ruolo nel panorama letterario europeo. Un tentativo quasi eroico visto che il padre non c’è più, la Russia nella quale è vissuto non c’è più, il panorama letterario Europeo nel quale è cresciuto non c’è più.

È rimasta l’Italia nella quale ha vissuto la famiglia Sobakevič, un’Italia ridotta e, in un certo senso, condensata fra Roma e Terracina, una dimensione troppo limitata per la statura letteraria di Michele.

Le città in cui ha vissuto – Pietrogrado, Berlino, Parigi – sono incredibilmente lontane. Una lontananza che non è solo geografica. Michele Sobakevič ha infatti vissuto più vite e l’ultima di queste vite, consumata in Italia, appartiene a un’epoca completamente diversa dalle altre. E il ricordo di Lidia, che non racconta la storia direttamente ma, diciamo così, mette il narratore in condizioni di farlo, moltiplica ulteriormente questa distanza temporale.

Poi c’è la scrittura di Giovanni Maccari, che gioca col tempo della narrazione in modo assai intelligente. Con l’imperfetto storico la vita di Lidia sembra raccontata nel momento stesso in cui si svolge. E siccome l’imperfetto è anche il tempo in cui accadono le vicende che riguardano il padre, l’impressione generale è di essere vittima di uno strano effetto ottico in virtù del quale Michele Sobakevič compare in primo piano, vicinissimo al personaggio di Lidia, ma anche lontanissimo dallo sfondo al quale dovrebbe naturalmente appartenere.

Il fatto che tutto si giochi su un piano temporale, in cui ogni personaggio finisce per tendere l’elastico della storia, evita che la figura di Lidia emerga “a risparmio” rispetto a quella del padre, prendendo sostanza unicamente dove il suo ingombro vien meno. Le due figure crescono assieme, lievitano – è il caso di dirlo – contemporaneamente ma autonomamente (basta leggere il capitolo 5 “Dove si scopre che al di là del padre Lidia voleva vivere e svilupparsi, come tutti”), dopo un identico periodo di incubazione l’una nella vita dell’altro: nella forma dell’aspettativa, se si tratta della figlia, in chiave retrospettiva se si tratta del padre.

E Maccari, la cui presenza – se così posso dire – è consapevolmente minima, tanto da calarsi, senza però esaurirsi, nella discreta figura dell’avvocato, tratta l’intero romanzo secondo una visuale non perfettiva, appunto. Come se già sapesse tutto e, proprio per questo, potesse tranquillamente ignorare la conclusione.

Del resto Michele Sobakevič non c’è più, la Russia nella quale è vissuto non c’è più, il panorama letterario Europeo non c’è più e anche Lidia, affetta da una malattia che la consuma gradualmente, è destinata a non esserci più.

Il suo sforzo per creare e conservare l’archivio di Michele Sobakevič è un tributo tanto più straordinario quanto più è evidente la contraddizione che nasce dall’imminenza della fine.

Un archivio, fra l’altro, lo si può organizzare in molti modi. E in nessun modo la sua esistenza dipenderà dall’essere completo (e dunque finito). Come dimostra palesemente questo romanzo, il cui penultimo capitolo si intitola “La fine”, che è seguito da un altro capitolo che si chiama “Epilogo”, e che però a distanza di tempo torna ad allungarsi, a riorganizzarsi, a dilatarsi, lasciando al lettore la possibilità di prender le distanze. Le giuste distanze per sentirsi emotivamente coinvolti nella stupefacente “Vita di Lidia Sobakevič”.

Mauro Orletti

[Giovanni Maccari, Vita di Lidia Sobakevič, Edizioni Pendragon, 2014]

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