Anche dentro l’ornamentale

Tancredi Parmeggiani è un pittore strafamoso che non conosce nessuno. Tancredi inteso come soggetto, Tancredi complemento oggetto. È nato nel ’27, mio nonno nel 19. Mio nonno si è sposato nel 1939, aveva vent’anni e un paio di guanti bianchi. Propriamente mio nonno non si è sposato in chiesa, ha detto sì dentro la cornice avana, sulla credenza marrone del tinello. Poi ha vissuto novantun anni. A novembre è rientrato nella cornice. È tornato sul tinello. Ha infilato le mani nei guanti. Quarant’anni in ritardo su Tancredi. E poi basta.
Il fatto è che sfogliando il catalogo di una mostra sull’informale mi è capitato sotto gli occhi un quadro di Tancredi. Mentre riposavo lo sguardo sulle sue spatole, la mente è andata dritta dritta alla foto del matrimonio di mio nonno.
In coppia, i Reggenti di Antiochia, cavalieri d’Altavilla, reali di Sicilia, quintocantati nella Gerusalemme liberata ed ultimo suonati nella tragedia rossiniana, mio nonno e Tancredi, fuori dai cataloghi, paiono per davvero eroi del 1100. E della 1100 bianca, interni grigi. E davvero esiste una distanza incolmabile fra il loro anacronismo ed un catalogo d’arte. Una lontananza resa paradossale dalla non assimilabilità di dimensioni temporali e piani spaziali.
Ecco perché questo quadro ricorda il matrimonio di mio nonno… anzi, la foto del matrimonio scattata prima ancora che piazza Venezia. Ecco perché questo quadro viene prima del gesto creativo, termina dopo il valore estetico, dura anche dentro l’ornamentale. Come la cornice si appropria della foto.
Nel ’52 Tancredi firma il Manifesto del Movimento Spaziale, sei anni dopo sposa Tove Dietrichson, una pittrice norvegese. Non è un caso. Che si sia sposato dopo la firma, che si sia sposato con un fiordo. Infatti al matrimonio mia nonna era sola. La famiglia l’aveva abbandonata dopo che lei s’era messa in testa di sposare uno del consorzio agrario. Sul sagrato della chiesa c’era tutta la famiglia dello sposo, al gran completo. Della sposa nessuno. Come all’alba del 27 settembre, quando Tancredi si getta nel Tevere.
Però, se uno dipinge come lui, con le spatole, il suicidio è ammesso, non c’è il rischio di auto-referenzialità. Coma la cornice si appropria della foto. Come si potrebbe fotografare questo sfasamento di ventimila giorni e di ventimila leghe. E pure Van Gogh… nessuno direbbe mai che è un pittore autoreferenziale, che il giallo dei suoi campi è per il nero dei suoi corvi. Suicidato dalla società, come intuì Artuad.

[Mauro Orletti]

Un commento

  1. mario

    Questo pezzo rappresenta un esempio fulgido di quello che noi chiamiamo, con nome provvisorio, enfantprodigismo. All’apparenza pare dire molte cose senza dire niente, ma poi, a guardare bene, dice molte cose senza dire niente, allude a molte cose, lascia la sostanza alla scoperta del lettore, ma, sapendo che non potrà trovarla, lo intrattiene e cerca di traviarlo con continui sbalzi di punti di vista, gioca con le parole senza poter giocare con le cose, ma volendo giocare con parole e cose, forme e sostanze, mischia le carte quando il lettore pensa di aver trovato la chiave. Provoca continuamente, ma non per dimostrare una realtà vera che sta sotto l’apparente, ma per inchiodare all’ineluttabile realtà dell’apparente. E non per dire che l’unica realtà è l’apparenza ma solo che non possiamo fare a meno di pensare che ci sia una realtà vera che appare ma non sappiamo quale è, quindi continuiamo a giocare, su tutti i tavoli, da un piano all’altro. Mi piace moltissimo!

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