“sian stati i libri o il mio provincialismo
e un cazzo in culo e accuse d’arrivismo
dubbi di qualunquismo son quello che mi resta”
(F. Guccini, L’avvelenata, 1976)
Da quando sono tornato a vivere in Italia, da più parti mi sono arrivate domande su come ho trovato il paese. Rispondo sempre: esattamente come lo trovavo, avvelenandomi, quando tornavo per brevi periodi. Ossia sempre più gretto, sempre più scortese e inospitale Però questa è una generalizzazione. In poco tempo, ho anche incontrato molte persone gentili e con molta voglia di condividere. Però sempre quando li incontri da soli o magari in piccoli gruppi.
Di questo si vuole ragionare qui: della difficoltà italiana di maturare un senso della collettività che non sia piuttosto un individualismo mascherato. Quello che si vede è piuttosto un individualismo assoluto e mistificato in categorie fintamente collettive: la patria piuttosto che la regione; un’appartenenza partitica piuttosto che religiosa o sportiva; la famiglia o tuttalpiù un allevamento di trote.
Si dirà che questo è un meccanismo consolidato da molto tempo, perlomeno dalla beneamata unità. Non a caso il Metternich, morto giustappunto 151 anni fa, parlava dell’Italia come di “un’espressione geografica”. Come a dire: il fatto che trote, squali e “cod-fathers” stiano nello stesso acquario è una pura casualità. Non è che abbiano coscientemente deciso di stare lì tutti insieme…
Il meccanismo consolidato, da 150 anni almeno a parte brevi drammatiche parentesi, è quello di sottrarre quanto più possibile alla ricchezza comune per trattenerla a livello individuale o di piccolo gruppo. L’Italia odierna è quanto di più emblematico al riguardo. Ora, per chi, in questo paese, ha davvero e in abbondanza, fottersene degli altri e trattenere il più possibile a livello individuale è un atteggiamento pienamente coerente. Ma gli altri? I semplici lavoratori?
Capita spesso di parlare con lavoratori che in passato hanno avuto qualche briciola di privilegio in più e ora non si capacitano di non averne più. E di non poter lasciare ai figli – sempre categoria fintamente collettiva – ciò che si pensava di potere. Finendo per rinforzare l’individualismo nel vano tentativo di strappare l’ultima briciola ai propri simili.
In sintesi: chi ha davvero, in questo sistema, tendenzialmente se ne fotte dei figli. Trattiene per sè, “qui e ora”, e poi chi vivrà vedrà. E gli altri? Gli altri, con la scusa dei figli, hanno preso la difesa di questa stessa strategia – di non condivisione – che li schiaccia. Fuggendo tutti nelle cose, nella materia, spesso in uno sterile tradizionalismo. “Qui e ora”.
Agganciarsi alla materia, alle cose, “qui e ora”. Lo spazio presente, il tempo presente.
Poi però ci si guarda indietro e si capisce che non è l’Italia: si può saltare nello spazio ma questo tempo presente di non condivisione, di categorie fintamente collettive sta dappertutto. Un tempo sociale che induce ovunque ad agganciarsi alle cose, alla materia, “qui e ora”. Con la disperazione di chi le briciole le ha finite tutte, ma non ne vuole prendere coscienza.
Ciò che sembrava diverso non è un luogo lontano e differente. Sono luoghi, persone di questo stesso tempo presente. Luoghi, persone del passato che semplicemente sono agganciate a cose, a materia, “lì e ora”, che profumano di più O forse che puzzano un po’ meno. Ultime briciole di privilegio. Perché in un tempo sociale in cui scarseggiano le scialuppe di salvataggio, stare sul Titanic in prima privilegiata piuttosto che in terza classe (“la terza dolore e spavento, e puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto”) cambia le cose. Ma questa è un’altra canzone.
Questo articolo è apparso anche sul blog aWalkOnTheWildSide: http://fbogliacino.blogspot.com/2010/10/lavvelenato.html