Una voce fuori dal coro, una voce dentro la cornetta del telefono, mi dice: la mia generazione – che ha avuto Togliatti come maestro – non può che esigere il primato della politica. Nel confronto/scontro su Pomigliano, Fiat, modello contrattuale, relazioni industriali eccetera, manca la Politica. E quando dico la Politica non mi riferisco ovviamente alla politica fatta di analisi e (quando dice bene) risoluzione di problemi strategico-sindacali.
In un documento della Camera del Lavoro del 1968, citato da Renzo Giannotti in “Trent’anni di lotte alla Fiat”, c’è scritto:
“La vertenza ha riproposto il problema del rapporto lotta-trattativa, movimento-accordo sindacale, anche nel senso di una sottovalutazione del momento della trattativa e del valore dell’accordo sindacale. (…)
Questo tipo di contrattazione presuppone i momenti della lotta, del risultato delle lotte nell’accordo, e passa dialetticamente dalla fase della mobilitazione per la lotta a quella di mobilitazione per l’applicazione dell’accordo. (…)
In questa dialettica la mobilitazione della classe operaia ha uno sbocco immediato e nello stesso tempo una nuova prospettiva di lotta. Ma il valore dello sbocco immediato e la prospettiva nuova di lotta dipendono dal rapporto di forza che si riesce a stabilire.”
Questo documento dice una cosa importante: ciò che deve interessare le organizzazioni dei lavoratori (non solo del movimento operaio… ammesso che ancora ne esista uno) non è la lotta per la lotta, la mobilitazione permanente, ma l’analisi attenta del processo del lavoro (e delle sue prospettive) e l’individuazione di obiettivi che uniscano i lavoratori, anziché ricompattare quelle che una volta si sarebbero chiamate le “forze reazionarie”.
Solo che, nell’attuale modello delle relazioni industriali, per fare l’analisi attenta e per individuare gli obiettivi bisogna stare in fabbrica. E stare in fabbrica significa fare scelte difficili e non ideologiche, cioè motivate da problemi reali (ad esempio contraddizione fra cassa integrazione nel turno di giorno a fronte di straordinari nel turno di notte… vedi Melfi), scelte che dicano in modo chiaro: siamo dentro lo stabilimento, viviamo i problemi dello stabilimento, denunciamo malfunzionamenti e contraddizioni, ci assumiamo in questo modo (e solo in questo modo) la nostra parte di responsabilità nell’andamento produttivo (non lo facciamo, invece, firmando accordi come quello di Pomigliano).
Dopo poi, volendo, si può anche discutere delle prospettive e degli scenari possibili e/o della condivisione, da parte dei lavoratori, degli obiettivi individuati dal sindacato (ad es: siamo sicuri che ai lavoratori faccia piacere che lo straordinario notturno sparisca dallo stabilimento… visto quanto viene pagato?).
Insomma questo, oggi, è il modello.
Un modello in cui l’accordo sindacale è un momento transitorio, un armistizio, e non il punto di equilibrio (stabile) fra interessi del datore di lavoro ed esigenze dei lavoratori, fra ineluttabilità di processi reali (mercato globale, concorrenza sleale, ecc…) e capacità di interpretarli, condizionarli e – al limite – dominarli.
Ci saranno esempi più recenti, ma a me viene in mente l’Olivetti del ’64 e la lotta degli “attrezzisti”, operai specializzati che lavoravano alle macchine utensili. Quando l’azienda ha cominciato a installare macchine a controllo numerico, che rendevano sostanzialmente inutile una gran parte dell’abilità professionale dell’operaio, il sindacato si è incaponito – senza voler sentire ragioni – nella difesa delle condizioni acquisite… Morale della favola: non solo non sono stati salvaguardati i diritti fin lì conquistati, ma è scomparsa addirittura la categoria degli attrezzisti meccanici.
In uno dei documenti di lavoro del “Centro studi di Diritto del Lavoro Europeo Massimo D’Antona” il prof. Carinci fa notare che perfino lo Statuto dei Lavoratori risente fortemente di questa impostazione (diciamo di contrattazione/scontro permanente). Tant’è che contiene una specie di delega in bianco all’autonomia collettiva, una delega basata sull’assunto (eccessivamente ottimistico) che le tre grandi Confederazioni siano in grado di gestire politicamente ed in modo condiviso la totale assenza di legislazione sindacale (infatti la formula statutaria della “maggior rappresentatività confederale” è costruita a misura di Cgil, Cisl ed Uil). Solo che questa delega in bianco presuppone la capacità di auto-regolazione collettiva (sia politica che normativa) del sistema sindacale. Invece, all’indomani dello Statuto, la possibilità di riconoscere una rilevanza giuridica dell’autoregolazione sindacale è subito tramontata e ad essa si è sostituita, nel bene o nel male, la contrattazione permanente, quella che – appunto – riduce l’accordo sindacale a semplice armistizio.
La voce fuori dal coro mi fa notare che la contrattazione/mobilitazione permanente è nel codice genetico di ogni sindacato rivoluzionario che, all’interno di un sistema capitalistico, avrà sempre di che rivendicare… almeno fino a che esisterà remunerazione del capitale. E dunque la prospettiva di autoregolazione non è tramontata all’indomani dello Statuto, piuttosto non è mai nata. E lo Statuto stesso è una tappa, nulla più, di quella mobilitazione permanente.
Le conseguenze sono ovvie: assenza di qualunque articolazione fra negoziazione di primo e secondo livello e, quindi, possibilità per la rappresentanza sindacale aziendale di rilanciare su tutto, sia sul trattamento economico sia su quello normativo, senza che i cosiddetti “demandi” del contratto nazionale offrano limiti reale.
Ecco dov’è che manca la politica. Perfino Landini se n’è accorto. Tant’è che ha fatto chiaramente intendere che, se di nuovo modello si deve discutere, lo si fa con il governo (che, ahimé, si è scelto Sacconi)… e non con Marchionne e non partendo da Pomigliano.
Anche perché all’amministratore delegato Fiat non interessa risolvere politicamente la questione, costruire un nuovo modello. Ad oggi, infatti, l’unica idea partorita da Marchionne sembra essere questa: costringere il sindacato a reinventarsi un ruolo – mistificato dalle prospettive di “cogestione” (che non hanno niente a che spartire con la politica industriale partecipata, altro che cogestita!, del sistema tedesco) – in cui il sindacato esce dalla fabbrica ed in generale dai luoghi di lavoro e si rintana in spazi che, se anche gli permettono di sopravvivere (economicamente), gli negano ogni velleità di “controllo” e contrattazione, ogni possibilità di difesa materiale dei diritti dei lavoratori.
La voce nella cornetta mi parla allora di Bonanni e della sua strategia, del lavoro sottotraccia per entrare da protagonista nel mondo degli enti bilaterali. Perciò gli chiedo, alla voce nella cornetta, un sindacato come la Fiom può davvero permettersi questa ritirata? Può limitarsi a discutere di formazione, pari opportunità, gestione concordata per il superamento dei momenti di crisi e, quando va bene, di ritocchi salariali in funzione di indici di inflazione? Può accettare questo nuovo modello? Secondo me non può. E non lo dico perché ho in mente quel che dovrebbe fare, lo dico pensando al suo codice genetico (sindacato rivoluzionario?).
Può, forse, sedersi a discutere. Questo vorrebbe anche Epifani. Ma se così è, bisogna essere onesti e sapere sin dall’inizio che la discussione riprodurrà gli schemi dell’unico modello esistente e all’interno del quale ha ancora senso una dinamica negoziale. Altrimenti si finisce per fare pasticci, per fare contratti nazionali come quello del 2009, accordi come quello di Pomigliano, disdette come quella di Federmeccanica.
Pasticci dalle conseguenze potenzialmente nocive. Il ccnl metalmeccanico del 2008, infatti, a norma dell’articolo 2 su decorrenza e durata, dice che:
“Salve le decorrenze particolari previste per singoli istituti, il presente Contratto decorre dal 1° gennaio 2008 ed avrà vigore fino a tutto il 31 dicembre 2011; per la parte economica il primo biennio avrà vigore fino a tutto il 31 dicembre 2009.
Il Contratto si intenderà rinnovato secondo la durata di cui al primo comma se non disdetto, tre mesi prima della scadenza, con raccomandata a.r.. In caso di disdetta il presente Contratto resterà in vigore fino a che non sia stato sostituito dal successivo Contratto nazionale.”
Quindi, non solo disdettandolo se ne conferma (implicitamente) la vigenza, ma alla data dell’1.1.2012 non potrà neppure considerarsi sostituito (neppure in parte) dal ccnl firmato da cisl, uil, ugl e fismic nel 2009, essendo quest’ultimo un contratto “coevo”, ossia antecedente e non successivo alla scadenza del contratto disdettato.
Cosa accadrà, dunque, nel 2012? Volendo rimanere nello schema dell’attuale modello si dovrà continuare ad applicare il ccnl del 2008 fino a che non verrà approvato un nuovo ccnl. Al di fuori di questo schema, cioè nella terra di nessuno, si proverà a forzare la mano e, a quel punto, la tenuta giuridica del principio di autonomia collettiva potrebbe risultare compromessa.
Quello che la Fiom deve capire è che non bisogna arrivare a quel punto (perché lì, davvero, il prezzo da pagare potrebbe essere eccessivo). Bisogna intervenire prima. Bisogna farsi protagonisti del ripensamento degli assetti contrattuali. Ma su quale terreno? Non certo quello delle vertenze Fiat (dove la Fiom assume spesso posizione schematiche… ma, aggiungo io, è costretta a farlo).
Se Pomigliano dev’essere un’occasione, è bene che lo sia sul terreno della politica.
Per tornare a Togliatti… (che la mia generazione si guarda bene dallo scegliersi come maestro) nel testo “Sul movimento operaio internazione”, rivolgendosi ai compagni cinesi – incapaci, a suo dire, di rimanere vicino alla realtà in trasformazione (da un punto di vista culturale, economico, lavorativo) e colpevoli di una falsa interpretazione della politica, perché aliena da ogni ogni comprensione della realtà del mondo – Togliatti dice:
“Lo schematismo, il dogmatismo, il rifiuto di pensare e fare qualcosa di nuovo, l’adorazione delle formule scolastiche e del frasario precostituito, la paura delle cose nuove, ci hanno recato gravissimi danni. (…)
Il XX congresso segnò l’inizio di un processo di rinnovamento che doveva rendere generale la lotta contro lo schematismo e restaurare il carattere creativo del nostro pensiero e della nostra politica”.
Ecco, la conclusione, al momento, mi sembra questa: la spinta creativa, la volontà di superare la paura delle cose nuove, è venuta meno alla politica e, fino a prova contraria, è assente anche sul piano sociale, collettivo. La domanda, a questo punto, è: chi avvierà la lotta contro lo schematismo per restituire al nostro pensiero il suo carattere creativo?
[Mauro Orletti]