La storia, se volete, è anche semplice. C’è un uomo, un pastore, che è stato scelto dalla comunità di paese per fare il Cristo alla processione del venerdì santo. È così convincente, a fare il povero Cristo, che per tutti è insostituibile. E quindi, per quasi dieci anni, volente o nolente, gli tocca fare il Cristo alla processione del venerdì santo. Volente o nolente, perché – anche quando non vuole – la gente del paese lo obbliga a portare la croce. Poi, un giorno, visto che lui abita in montagna, gli viene l’idea di scappare. Da quel momento comincia una vera e propria caccia al Cristo. Lui scappa, il paese dietro. Finché questo inseguimento diventa una tradizione, più importante della processione. Se il pastore, che si chiama Orlando, non scappasse, se – con l’avvicinarsi del venerdì santo – non facesse provviste preparandosi alla fuga, se di punto in bianco non prendesse la via dei monti, l’evento non sarebbe lo stesso. Una tradizione nella tradizione. Un rito, quasi. Che richiama l’attenzione di giornali e televisioni. Che inchioda Orlando alla sua croce: anche se viene disprezzato da sindaco, assessori e vigili urbani, è lui a rendere popolare la processione, è lui l’elemento più importante.
Poema epico e parabola religiosa insieme.
Orlando è un pastore, certo, ma anche qualcos’altro. Se volete, un po’ Cristo e un po’ Zarathustra. In entrambi i casi difettoso. Anziché scendere dalla montagna al mercato per portare l’insegnamento divino all’uomo, si allontana dal mercato salendo alla montagna. Vorrebbe sottrarsi all’insegnamento dell’uomo, Orlando. E al proprio destino. Gli basterebbe rimanere in casa, non scappare, non dare il via alla caccia… ma non può farlo. Ad un certo punto lo dice apertamente:
Vuoi vedere che è tutto preparato? Vuoi vedere che siamo arrivati al punto che pure io sono preparato…
E quando dopo prende la decisione di partire, è come se l’avesse presa un altro al suo posto.
La processione, d’altra parte, non è più una banale rievocazione. Le frustate arrivano per davvero, i calci anche, gli sputi idem, lo straccio è realmente imbevuto di aceto, la caduta con la croce in spalla non è finta ma provocata da uno sgambetto.
Ancora. Quando sindaco e assessori gli fanno visita, carichi di cibo cucinato per l’occasione, apparecchiano un grande tavolo con tredici posti… tredici, come all’ultima cena.
Poema epico e parabola religiosa. Perfino la forma si adegua. Orlando racconta, Morelli registra, poi sbobina e – come dichiara nell’ultima pagina – a parte qualche virgola non tocca niente. Nel rispetto della migliore tradizione (trasmissione) orale. Il racconto orale, se volete, è l’origine della parabola, dell’epos.
La luna di Orlando è la Majella. Che non è l’Himalaya. L’Himalaya serve agli esperti, quelli bravi, che sanno da che parte salire, che non si perdono, che scalano vette. La Majella è diversa. Non sfida nessuno. Non serve nessuno. Come ha scritto altrove lo stesso Morelli: La Maiella è una imprecazione formidabile. Le popolazioni locali non possono farne a meno. Si impreca solo con cose grandi che ci stanno vicino, se sono dèi o dèe è meglio, solennemente li si chiama a presenziare. Non c’è da augurare il male, piuttosto bisogna scovare la forza per reagire alla fatica, alle avversità, agli inciampi inevitabili. La formula valida non nasce a caso, non si impreca con cose di poco conto, e la Maiella è un’imprecazione pressoché perfetta.
Sulla Majella anche gli esperti si fanno fregare: magari restano intrappolati in una mugheta, magari devono usare il telefonino, magari si fanno salvare dall’elicottero dei soccorsi.
Ecco, se volete, la storia raccontata da Morelli è anche una sfida fra antico e moderno. Fra chi affronta la montagna perché la conosce e la rispetta e sa rinunciare a una scalata notturna troppo pericolosa o all’attraversamento diretto di una mugheta, e chi pensa di poterla affrontare in qualunque condizione… grazie alla tecnologia. Una sfida, a tratti epica (ma mai nostalgica), fra il pastore e quelli che partecipano alle battute di caccia, attrezzati di tutto punto, seri seri, ma in fondo ridicoli.
Ridicoli non solo nei panni dei cacciatori. Anche nei panni del sindaco. Che sale su una roccia e tiene una specie di comizio, una cosa improvvisata per convincere Orlando a scendere dalla montagna per fare il Cristo alla processione, rendersi utile al paese, alla civiltà cattolica, al mondo intero. O, più prosaicamente, per mangiare gli strozzapreti al sugo d’agnello di Mariano il cuoco. Tutto pur di vedere rispettata la tradizione.
Ridicoli anche nei panni dei consiglieri. Che gli ricordano che a fare il Cristo poi gli mettono gli occhi addosso tutte le ragazze del paese.
Fiato sprecato però. Orlando non è un ingenuo. È un pastore, certo, ma non come siamo abituati ad immaginare i pastori. Sa essere cinico, Orlando. Del sindaco dice:
…uno come il sindaco Paolini io lo vedo basso in classifica, presempio, ci ha l’amante in un paese vicino e il figlio si è suicidato. Si è buttato da un ponte sul fiume perché non ne poteva più di un padre così…
Anche quando parla di Olga, la figlia del maestro, che fa la Maddalena alla processione, ne le manda a dire:
La scelgono perché dicono che va con tutti, ma è racchia poi si mette un profumo che è una puzza fetente che a me mi fa stomacare alla Processione…
Niente di più lontano dall’idea di pastore ingenuo e ignorante. Ignorante? Orlando ama i libri, ne legge tanti, come faceva il padre, e prima di lui il nonno. Il padre leggeva i romanzi a voce alta e, se non gli veniva bene… leggerli a voce alta, voleva dire che come romanzi non valevano niente. Anche Orlando legge, legge gli stessi libri del padre, impara interi brani a memoria e certe volte, quasi senza accorgersi, inizia a recitarli. Nel rispetto della migliore tradizione orale.
La tradizione, la voce, la narrazione, la storia. Che, se volete, è anche semplice… da raccontare.