…DURANTE LA REALIZZAZIONE DI QUESTO FILM
Entri nella sala “piccola” di un dignitoso cinema di una poco dignitosa cittadina di provincia. La sala è vuota. Cosa strana, visto che si tratta di un film dei Coen, registi non proprio sconosciuti… neppure in una poco dignitosa cittadina di provincia. Il film comincia. Ti guardi intorno. Otto spettatori in tutto. Strano.
Le prime scene si svolgono in un villaggio ebraico dell’Europa centrale. Epoca indefinita. Ottocento? I personaggi cominciano a parlare. Non è inglese, non è tedesco, non è russo… che cavolo di lingua è? Arrivano i sottotitoli. Cazzo, hai sbagliato sala! Sei sicuro di aver sbagliato sala. Che fare? Alzarsi? Chiedere alla maschera? Scusi, in che sala proiettate il film dei Coen?
Per fortuna sei un tipo poco propenso all’iniziativa, pieno di ansie e timori. Resti seduto. Allora… ricominciamo.
Stai guardando il prologo di un film dei Coen. In uno schtetl vicino a Lublino, nel gelo dell’inverno, un uomo e una donna ebrei attendono un ospite. Parlano in yiddish. Litigano in yiddish. Lei è convinta che il loro ospite sia un dybbuk, lo spirito di un morto. Un parente le ha parlato di un vecchio che, dopo essere morto, non è stato vegliato secondo i riti antichi. Tanto è bastato perché il demonio entrasse in lui. L’uomo non è d’accordo. Il dybbuk non può essere un dybbuk, un dybbuk non ti aiuta mentre sei in strada, sotto la neve.
Quando poi il visitatore bussa alla porta ed entra in casa, la donna non ha esitazioni, sa esattaente cosa fare: agire secondo tradizione. E lo trafigge con un punteruolo. Ma l’ospite non muore. Continua a parlare, in yiddish naturalmente. Dunque non ci sono dubbi, è un dybbuk.
D’un tratto la sua camicia si arrossa di sangue. Perchè? Un demone può sanguinare? No, aveva ragione l’uomo. Il visitatore si alza, protesta per la scarsa ospitalità della coppia, se ne va sotto la tormenta di neve con il punteruolo piantato nel cuore.
Quindi?
Stacco: Minnesota 1967. Larry Gopknik, ebreo, è un docente di fisica che stordisce i suoi studenti tracciando sulla lavagna grafici e formule incomprensibili che dimostrerebbero il principio di indeterminazione. Cioè, per dirla con parole semplice, nulla è certo a questo mondo. Poi Larry rincasa e scopre che è proprio così: nulla è certo a questo mondo.
La moglie lo tradisce e gli chiede un gett, divorzio rituale che consente seconde nozze. L’amante di lei invia lettere anonime che rischiano di interrompere la sua carriera didattica. Uno studente coreano prima tenta di corromperlo poi di incastrarlo. Il fratello, giocatore incallito che passa ore in bagno a causa di una cisti sebacea, viene arrestato per sodomia.
Larry non sa che fare. È colpito dall’ira di Ashem ma non sa perché. Prova timidamente ad avere spiegazioni. Perché Ashem ha deciso di mettere alla prova un uomo serio come lui? Gira la domanda alla somma di regole e verità che nella Tradizione hanno preso la forma del sacro e dell’immutabile. La Tradizione. Che però non aiuta. Nemmeno quella. Come il prologo nello schtetl. Come una lingua che non capisci. Un film che non sai se è il film giusto. Un rabbino rincitrullito che che cita i Jefferson Airplane o che ti propina il racconto assurdo di un dentista che un giorno, nel suo studio, si accorge di una scritta incisa sui denti di un cliente non ebreo.
E la scritta dice Aiuto!
Ed Ashem tace.
E l’uomo serio non fa domande, obbedisce, va avanti con dignità.
E Rabbi Marshak, il rabbino anziano, rivela: Quando la verità si fa menzogna, quando la speranza è persa, non resta che ascoltare i Jefferson Airplane. Attesa giudaica.
E tu sei lì, in sala, unico rimasto, guardi scorrere sullo schermo i titoli di coda, centinaia di nomi che non fai nemmeno in tempo a leggere, fino a che compare una scritta: nessun ebreo è stato maltrattato durante la realizzazione di questo film.
Aiuto!