“L’ultimo inquisitore” è un titolo (anzi la resa in italiano di un titolo) pessimo, bruttissimo, ridicolo. Non so chi l’ha deciso ma andrebbe passato per la corda. La corda è la grande protagonista della prima parte del film di Milos Forman. Neppure il tempo di prendere confidenza con la giovane Ines (Natalie Portman), modella di Goya, che dobbiamo fare i conti con l’immagine di lei torturata dai soldatini della santa inquisizione. Una scena appena abbozzata, intravista, però capace di suscitare terrore e rabbia. La ragazza è nuda, le mani legate dietro la schiena, una corda fissata ai polsi, un argano al soffitto, il dolore e le urla quando la corda viene tesa, il corpo sollevato, i nervi e i legamenti sollecitati oltre i limiti della sopportazione.
Ines è la figlia del ricco mercante Tomas Bilbatua (José Luis Gómez). Solida famiglia borghese, perbene, cattolica e di buon gusto: può perfino permettersi di commissionare ritratti al pittore di corte Francisco José de Goya y Lucientes (Stellan Skarsgård). Sfortuna vuole che la solida famiglia borghese annoveri fra i suoi avi un ebreo convertito. Non bastasse, nel corso di cena alquanto vivace in una taverna non proprio raccomandabile, Ines rifiuta di mangiare la carne di un maialino arrostito. E gli occhi della chiesa sono lì, ad appagare – come al solito – inconfessati istinti voyeristici. L’accusa è immediata: giudaismo. Convocazione innanzi al tribunale. Processo (farsa). Tortura. Confessione.
Lo spettatore sente montare la rabbia dentro di sé. Ed ecco, provvidenziale, la bellissima scena in cui la famiglia della ragazza, dopo aver attirato nella propria casa – con la complicità inconsapevole di Goya – l’influente inquisitore padre Lorenzo Casamares (Javier Bardem), lo sequestra, lo tortura (con il metodo della corda) ed in questo modo gli estorce la confessione di essere stato generato dall’incrocio di due scimmie e di avere successivamente preso i voti per nuocere alla chiesa. Così dimostrata l’inattendibilità delle confessioni ottenute per mezzo della tortura, la famiglia Bilbatua chiede il rilascio di Ines. Un rifiuto e la confessione verrà resa pubblica.
Ricordiamolo. Anche Goya, ad un certo punto (è il 1815… il 1815! non il medioevo, il 1815!), finirà davanti al tribunale della santa inquisizione. Bene così. Privarsi di un simile privilegio non si addice ad un uomo convinto di dover sperimentare tutto. Francisco José de Goya y Lucientes è onnivoro, ed è questa capacità di ingoiare verità, menzogna, orrore, bellezza, morte, vita, tempo, storia… è questa sua capacità (più che le influenti amicizie di cui gode) a salvarlo dalla corda. A salvare la sua arte.
All’inizio del film Milos Forman allestisce un siparietto di inquisitori ottusi e solerti che si scambiano i “Capricci” (credo) del pittore. Esaminano, commentano, si scandalizzano… e giù anatemi! Goya il peccatore, Goya l’eternamente dannato, Goya l’eretico. Ma gli occhi di santa madre chiesa, dietro tanto ostentato ribrezzo, rivelano un’attrazione morbosa per quel genere di pitture. Inaspettatamente l’ambiguo padre Lorenzo Casamares prende le difese dell’artista: basterebbe essere onesti per riconoscere in quelle opere il volto terribile della Spagna, anzi no, del mondo contemporaneo. Uomini e donne deformati (anche fisicamente) dal vizio, condannati dalle loro debolezze, precipitati nell’orrore di un incubo senza fine.
Goya, dunque, è onnivoro. Sperimentatore. Affamato. Ingurgita colori, forme, volti, sentimenti. Immagina, scruta e dipinge siparietti luciferini, famiglie reali, cruenti episodi di guerra. Non si specializza, non vuole, assorbe tutto, si nutre di un’epoca in cui è impossibile fermarsi o anche solo rallentare. Chi resta indietro finisce male. La sorte impone una scelta. E Goya ha scelto di stare nella sua epoca, nel suo tempo, di adeguarsi ad esso. Il caos del mondo è il caos della sua visione. Per questo resta sempre a galla. Pittore di corte coi regnanti spagnoli, pittore di denuncia con le vittime della guerra, pittore dei francesi con Napoleone, pittore di cappelle con la chiesa, pittore libertario con Wellington, pittore del nero (le pinturas negras) con la malattia . Anche padre Lorenzo accetta la sua epoca e ad essa si adegua. In un certo senso ne coglie l’essenza. Inquisitore spietato con Carlo IV, cittadino rivoluzionario e illuminista con Napoleone, fuggiasco interessato con gli Inglesi del duca di Wellington, in attesa del verdetto con l’auto da fé della restaurata inquisizione.
Forman si interessa all’intreccio che avrebbe potuto legare la vita del pittore a quella di un inquisitore. Il ritratto di padre Lorenzo Casamares (dipinto da Goya, appunto, nel film) – una volta resa nota la sua confessione (l’ascendenza scimmiesca… premonizione darwiniana) – viene requisito e dato alle fiamme nella pubblica piazza. Qui non è solo una trovata dello sceneggiatore. Impossibilitata a mettere le mani su un condannato, l’inquisizione era solita vendicarsi bruciandone l’immagine (o, se questi era morto, riesumandone il cadavere e dandolo alle fiamme).
Mentre le fiamme consumano il ritratto di padre Lorenzo si manifesta, per la prima volta, la misteriosa malattia di Goya che nessun medico riuscirà a diagnosticare e che provocherà la sua completa sordità. È la pena che deve scontare. E non per aver ritratto il figlio di due scimmie, ma per aver deciso di mettersi al passo con il suo tempo, di ingerire, digerire e rimodellare la vita nelle forme dell’arte. Goya è contagiato dalla stessa malattia della sua Spagna, un paese sordo, incapace di prestare ascolto alle istanze del progresso. Goya si ammala mentre cura il mondo.
Ed Ines? La ragazza viene liberata. Ma questo evento non è dovuto al coraggio ed all’iniziativa della sua famiglia. È merito dei francesi. Loro arrivano, libertà uguaglianza, fratellanza… poi la rinchiudono in un manicomio. Vivere appartati e al di fuori degli eventi può salvare il corpo ma non la mente. Così come si era reso responsabile della cattura della ragazza da parte dell’inquisizione, allo stesso modo padre Lorenzo, tornato in Spagna da rivoluzionario francese, la fa rinchiudere. Quando poi arrivano gli inglesi, la condanna del redivivo cittadino è invevitabile. Egli ascolta il verdetto nel mezzo di una scena che Forman allestisce citando il dipinto “Il tribunale dell’inquisizione”, senza quel vapore demoniaco ma con la stessa arguzia caricaturale.
Ennesimo incrocio delle vite di padre Lorenzo Casamares e Francisco José de Goya y Lucientes e del loro modo di approfittare, subire, influenzare, nutrire (e nutrirsi della) propria terra, della propria storia, della propria carne. In un estremo, radicale, definitivo sussulto di cannibalismo.
Mauro Orletti