La cultura nasce quando l’uomo, consapevolmente o inconsapevolmente, pone gli oggetti della conoscenza in rapporto con la struttura emotiva.
Sigfried Giedion
Lo scarroccio di una barca in un pomeriggio di fine estate, a un paio di miglia dalla costa, ti consegna nitidamente i confini dello spazio che vivi: l’orizzonte dissimulato e lo schizzo di montagne che sembrano contenere l’avanzata urbana, le architetture della luce e del tempo che si intrecciano e trovano posto in un riflesso sul mare. Di fronte a una marina di Pasquale Celommi la stessa sensazione quasi e l’idea, sorta estemporaneamente da una conversazione con Vincenzo de Pompeis, di riportare lo sguardo, un po’ di attenzione, alle forme della nostra città. Pensare Pescara significa accorgersi di percorrerla, tanto nello struscio domenicale quanto nelle corse quotidiane; vuol dire partecipare coscientemente del suo evolversi, isolarne e comprenderne la bellezza e la monumentalità, così da potersi “riconoscere nell’urbs come membri della civitas, di una società la cui forma appropriata è l’intenzione estetica radicata nella sfera simbolica della città stessa” (Marco Romano, La città come opera d’arte). Ci vuole la consapevole intenzione, scrive Romano, da parte del realizzatore di un manufatto di farne un’opera d’arte per poterla considerare tale. E’ necessaria insomma quella spinta della creazione che dà sostanza e criterio al linguaggio formale e che distingue, nel caso nostro, l’artista dai tanti architetti, ingegneri, geometri o agronomi che “improntano” e non “pensano” l’opera, circondando e spesso soffocando le realizzazioni artistiche; per esigenza della committenza magari ma non si dica del cittadino, stimolando in ogni caso quell’“antiurbanesimo che non sconfina nel disastro ma che si adegua con prudenza” di cui parla Rosario Pavia a proposito di Pescara. Se l’architettura è genericamente “attività tecnico-intellettuale volta a modificare l’ambiente fisico in relazione ai bisogni della vita associata” è altresì “frutto di speculazione intellettuale d’alto livello” per dirla con Manfredo Tafuri. E’, dunque, ragionevolezza nell’operare, equilibrio tra le proprie scelte e le necessità del singolo della comunità e non meno della città in sé; è certamente compromesso ma non rinuncia, a fianco della sempre più rincorsa utilitas, di una sapiente venustas e della scontata firmitas, come da precetto vitruviano. Ma non basta secondo Romano: per “fare” un’opera d’arte ci vuole anche il cosiddetto riconoscimento pubblico, l’apprezzamento della collettività, e forse per questo da noi pressoché nulla viene considerato tale. Pescara ha una storia modesta ma concentrata, una storia da secolo breve, non secolarizzata, costruita e ricostruita disordinatamente tra le ombre e le luci del tempo. C’è stata sempre una parrocchia che più o meno ha influito (o addirittura interamente deliberato) sugli andamenti progettuali, sulla libertà dei progettisti, sulle voci della scarsa opinione pubblica esistente. C’è stata, c’è e non mancherà in futuro. Nonostante ciò diversi autori sono riusciti a mediare e a realizzare, con esiti anche prestigiosi. Perché Pescara, come ogni altra città, è pur sempre un “pascolo” secondo il Platone della Repubblica, “un luogo di crescita che condiziona e alimenta lo sviluppo di chi lo abita” come ci ricorda Nicola Emery nel suo Progettare, costruire, curare; pertanto chi concorre al disegno e alla gestione di questo non può dimenticare i crismi estetici e le attenzioni etiche al fine di “raggiungere la salute dell’intera città”. L’architetto allora, fedele a una propria deontologia, deve conciliare le diverse istanze “rivendicando la propria dimensione artistica” (perché come nota Siegfried Giedion “non esiste uno sviluppo che possa svolgersi senza quella superiore voce di soprano che è detta arte”), muovendo, nel progettare, “da una visione solistica, attenta al tutto e poi alla parte, e tendendo infine a una sintesi fra le esigenze specifiche della disciplina e le ripercussioni sullo spazio complessivo”. L’architettura così non diventa “una trappola, un dispositivo di separazione, una diga opposta al desiderio di socialità” ma riesce a “curare e armonizzare lo spazio” (N.E.) pur mantenendo la propria singolarità estetica. È questa, è l’insieme di queste, che creano una città “bella”; al contrario risulta un pastiche sempre alterabile in cui va ricercata e fermata l’opera d’arte. È il caso nostro. È il caso fin da ora di promuovere il riconoscimento di quella consapevole intenzione artistica che è intervenuta e che persiste in diverse realizzazioni pescaresi. Dobbiamo farci l’occhio allora, prestarci ad un confronto con esse, carpire quei valori estetici inscindibili dall’oggetto, di cui parla Giedion nel suo Breviario di architettura, che “irradiano da questo come dai fiori o dai cibi esalano i profumi; e poi come inafferrabili profumi determinano le nostre reazioni sensitive o emotive”. Per far ciò occorre anzitutto riappropriarsi dello spazio cittadino, batterlo col naso per aria, scindere dal poco allettante complesso le parti di qualità. L’artista, dice Giedion, è il mediatore tra noi e il mondo esterno, colui che supera la frattura tra realtà interna e realtà esterna; e, secondo l’architetto olandese Aldo van Eyck, la sua opera quantunque soddisfi funzioni pratiche, non differisce da qualunque altra attività creativa: spetta ad essa, mediante l’uomo e per l’uomo, dare espressione al naturale decorso dell’essere.
Questo “progetto aperto” quindi invita ad una “umanizzazione della città”, ad un riavvicinamento dell’io con il tu e con il nostro: ciascuno ne prende in consegna la bellezza come un gioiello personale da conservare nella cassaforte della memoria collettiva. Come? Leggendo e riconoscendo gli edifici di pregio che insistono a Pescara, quei progetti, citando Cristina Bianchetti, in cui “si distingue un fare artigianale entro una concezione alta del mestiere da una produzione di serie”. Tutte opere di architetti e ingegneri celebrati o “minori”, a partire dall’interessante eclettismo di Vincenzo Pilotti, autore schivato dalla inaspettata capacità visionaria e mediazione stilistica, esposto col suo disegno più emozionante, la Veduta generale del nuovo centro di Pescara, all’attuale Biennale di Venezia per merito di Antonello Alici. Ci troveremo a spasso per le strade con lo scopo di recuperare il contatto tra individuo e comunità, per accumulare qualche informazione e qualche impressione, e farci in chiusura un’idea della realtà che viviamo e che “ci vive”. Non analisi tecnico-scientifica allora né tantomeno lezione alla classe, non è mestiere nostro, bensì spunto per interessarsi al trascurato patrimonio architettonico, bene comune e simbolo sociale. “Che un edificio sprigioni una forza che commuove l’osservatore o rimanga invece materiale inerte, avverte Giedion, dipende esclusivamente dalla fantasia: se è riuscita o meno a riempirlo di sé”.
Così penso: è l’immaginazione del singolo che crea le cose ma è la coscienza collettiva che permette loro di vivere.
(da La città visibile – Pescara tra architettura e novecento)
G. D’Orazio