So che non dovrei essere io a comunicare. Ma è tempo che i mediocri parlino. La melma adesso deve sillabare, scrivere, pronunciare qualcosa, assumersi l’onere. Deve venir fuori. La delega dei gesti, delle parole, non va riproposta ancora una volta: ovunque, e persino in letteratura, sarebbe bene decadesse almeno per un po’.
La morale da sola non ha mai spinto le persone a unirsi. Costruire comunità ha sempre significato produrre regole, ha sempre comportato concepire pene, mettere in conto la violenza. Perché la morale, nonostante ogni tentativo, rimane intrinsecamente infondata, oltre che costantemente disattesa.
Da diversi anni ho appreso un nuovo sguardo: vedere tutto attraverso i corpi e da lì dilatare l’essere fino ai livelli di massima espressione, dal bisogno di vita, di cibo, la libertà di movimento, la possibilità di un lavoro che non distrugga i muscoli o comprometta la schiena, poter pensare, parlare, leggere e scrivere, accrescere il proprio essere fino ad amare qualcuno.
Questa è tutta la forza etica di cui dispongo. Un’etica che assume le argomentazioni del corpo come orientative, consapevole che il corpo è criterio: è ragione. Come quando si è spinti, per le proprie cure, a prediligere un medico competente e non raccomandato, non solo in riferimento a un principio astratto, come quello del merito, ma anche in modo semplice poiché si vuole garantire a se stessi ancora la vita. Amo questa urgenza, questa concretezza che coinvolge in assenza di ragioni fondanti, principi del bene e del male che sorvolano senza atterrare, che non persuadono.
Persuadere è difficilissimo. Specialmente se si tenta di farlo ripudiando espedienti retorici ovvi. Nessuno può raccontare che la furia dei clan camorristi si arresterà per il rimuginare dei suoi affiliati o sfidandoli sul piano della coscienza. È ingenuo anche solo immaginarlo. Uno scrittore come Roberto Saviano è invece in grado di andare oltre le semplicità retoriche, trovando il modo di comunicare con la gente. Penso in particolare al discorso rivolto alla piazza di Casal di Principe nel 2007, quando menzionò il “diritto alla felicità” come unico principio per cui vale la pena lottare.
L’espressione non deve ingannare: sembra richiamare alla virtù, ma non fa questo. In realtà, indica la necessità di liberare i corpi e le menti da ciò che impedisce di crescere e svilupparsi. Significa cercare di vivere meglio rimovendo ciò che ostacola il miglioramento delle proprie condizioni di esistenza. Vuol dire, in fondo, dilatare l’essere: resistere ai clan che invece l’essere lo comprimono.
Ricordo spesso il tenero orgoglio sul volto di mio padre, quando raccontava di una volta in cui sventò un incidente in auto accelerando all’impazzata, poiché soltanto così poteva sottrarsi a una traiettoria mortale, in una situazione in cui il primo istinto induceva a frenare. È un episodio che mi torna alla mente quando penso a lui, perché è come se, attraverso una narrazione minimale, avesse trasmesso un’idea, qualcosa di simile a una massima: non tutti gli scontri si sfuggono in frenata.
Il fatto è che in molti casi le cose hanno l’aspetto del paradosso. Rispetto alla lotta al potere dei clan mafiosi e alla vita in genere, prevale lo scoramento. Noi al sud non abbiamo niente. Eppure proprio in questo nulla ci sarebbe ragione di sperare. È come se la libertà si rendesse possibile solo dove alternative non ve ne sono e ridotto è lo spazio per scegliere. Tra Napoli e Caserta siamo compromessi fino al respiro, l’atto della vita è divenuto un atto patogeno. Ma forse l’insieme delle nostre privazioni totalizza un lusso: possiamo congiungerci prescindendo dalla morale. Ogni rivolta nella storia, qualsiasi, ha all’origine la sofferenza, si decide di battersi per rimediare al dolore, al disagio estremo. Lo spasimo condiviso è intrinsecamente eversivo poiché ha in sé stesso i semi dell’insubordinazione.
Ma tutto ciò connota evidentemente solo il sud, colato a picco in un concentrato di patimenti. Si può rendere partecipe l’altra parte del Paese coi racconti, aiutando a capire. In realtà, già molto è stato recepito. Ad esempio al nord sanno bene quanto concime nostro determina la loro efflorescenza e quanti putrescenti fiori tornino indietro nelle nostre terre. Ma ciò non muterà niente, nonostante livelli di esigua commozione o l’empatia distante di qualcuno. La tragedia che comprime l’essere al sud, andando verso su, è destinata a rarefarsi e a trasformarsi irrimediabilmente in questione morale. E per scopi morali nessuno ci aiuterà a salvare l’esistenza.
È solo il sud che può mobilitarsi per cambiare il Paese, soltanto nel meridione si trova un vero movente capace di concepire una moltitudine anziché allontanare e parcellizzare. E non importa nemmeno disperare perché, come scriveva Jean Pàul Sartre, non c’è bisogno di sperare per agire.
Noi giovani del sud siamo stati ancora una volta interpellati: cosa rispondiamo? Le poche persone impegnate sul terreno della lotta ai clan sembrano sempre più i combattenti descritti da Antonio Franchini: uomini costruiti per infliggere e in egual misura subire colpi, sono “un tipo ideale, un’eccezione, in un mondo diviso tra coloro che i colpi li vorrebbero soltanto dare e quelli che li possono solo ricevere”. Cosa rispondiamo noi in un momento in cui forse neanche l’immagine del combattente è sufficiente a descrivere la loro azione? Ora somigliano di più a persone costrette a muoversi in solitudine a spalle scoperte, a uscir fuori e infiammarsi, come dei kamikaze in potenza che possiedono strumenti inferiori all’avversario e per ciò disposti a lambire la morte follemente pur di colpire.
Nelle scorse giornate, ricordi privati mi hanno fatto pensare a Giordano Bruno, poco prima di avere casualmente tra le mani un passo del “Candelaio”:
Qualunque sii il vero punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che sono ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch’è, o è qua o là, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi.
E noi, in questa mutazione che può scaraventare fino a distruggere, cosa progettiamo? Noi senza dramma, che adoperiamo ore di vita a scrivere parole senza accento sulle nuove rotte della comunicazione telematica, dove siamo? Qual è il punto del tempo e cos’è che aspettiamo?
Marcello Capozzi