MAÏLAT Nicolae Romulus, rom, anni 24, manovale, piombato a Tor di Quinto, Roma, da un posto sperduto della Transilvania, Romania, e ormai tristemente noto a tutti per aver aggredito, violentato e causato la morte di Giovanna Reggiani.
MAÏLAT Maria, rumena, cittadinanza francese, classe 1953, scrittrice, esiliata dal regime di Ceausescu, sbarcata in Francia da un paesino altrettanto sperduto della Romania, non tristemente ma neppure nota per aver scritto diversi poemi e alcuni romanzi.
Stesso nome, stessa razza verrebbe da dire…eppure, al di là della comune nazionalità, da poco comunitaria tra l’altro, i due Maïlat in questione non sembrerebbero in relazione.
Tuttavia un sottile filo li lega, perché se il più noto Nicolae Romulus violenza ne ha commessa, la meno nota ma certamente più illustre Maria di violenza ha parlato, eccome. La violenza nei romanzi di Maïlat (Maria) è sempre sopruso del più forte sul più debole, è un gioco di potere che si dipana dinamicamente lungo il corso delle storie, con i personaggi che si alternano continuamente nel rivestire i ruoli ora di vittima ora di carnefice. È un mondo animalesco che si staglia su un orizzonte transilvanico, dove tutto sembra più rude, essenziale, dualistico, in cui lo spazio per le mediazioni bisogna trovarlo, per non fare “di tutta l’erba un fascio” perché, la storia insegna, i fasci non portano mai niente di buono…
E allora si apre un bestiario dei più vari, metafore del mondo animale per raccontare di scontri clandestini in cui “boxer” improvvisati, aizzati l’uno contro l’altro, si battono come “iene che hanno la meglio su tigri ferite”; villaggi interi popolati di bambini consumati dalla fame, con il cranio calvo ed eccessivamente allungato, gli occhi immensi che divorano il centro del viso, “degli insetti enormi ed insaziabili”. (La Grâce de l’ennemi, Paris, éditions Fayard, 1999). Storie di prevaricazioni, violenze, tentativi spesso vani di autoaffermazione; le metafore dal mondo animale, così care alla scrittrice, svelano con grazia e semplicità psicologie spesso contorte, dualismi tra apparenze abbrutite dalla miseria ed essenze che volano libere come “un’allodola al di là delle nuvole, inspirando la nebbia attraversata dai raggi del sole, col fuoco in fondo alla gola”.
Ironia, sarcasmo, giochi di parole permeano i romanzi della scrittrice rumena, sottilmente dissacrante, velatamente critica, con un tocco di freschezza capace di polemizzare con il potere in tutti i suoi aspetti. Ironia appunto, dato che dietro un nome per tutti così esecrabile si scopre una identità opposta, più impegnata ed efficace nel condannare la violenza di tanti con cognomi più consoni. Ed è dunque tale violenza psicologica, fisica, morale e sociale, a caratterizzare tutte le “storie di potere” contenute nei romanzi di Maria Maïlat; essa costituisce lo strumento per eccellenza di chi esercita il potere, ma nella prospettiva dinamica di scambio di ruoli tra vittime e carnefici, diventa spesso strumento in mano a miserabili reietti sociali.
Appetiti insaziabili cercano soddisfazione in rivendicazioni inespresse, inesprimibili, appena concepibili in effetti; una “fame” cieca, irrazionale e implacabile spinge ad un desiderio di possesso che diventa quasi bisogno di inglobare, l’altro, il mondo, la vita, per possedere finalmente qualcosa e per digerire realtà indigeste.
Difficile non pensare che Mme Maïlat non parli anche del suo omonimo, che non viva anch’egli in quella dimensione “tra-due”, sospesa, in bilico, in cui vivono tutti gli uomini a metà tra il loro paese e quello in cui arrivano, tra ciò che sono stati e quel che potrebbero essere. Tra vittima e carnefice, appunto.
Evviva Ceausescu allora, evviva la Casa del Popolo, che dal nome sembrerebbe un HBM (Habitation Bon Marché) francese o una casa popolare alla periferia di Milano, evviva tutte le maialate del comunismo perché hanno dato voce ad intellettuali ed artisti, evviva per i fiori che hanno concimato! Poi tanto quelli che crescono male si possono sempre estirpare e rispedire al mittente.
