Objet introuvable

Ho una radio in camera da letto. È una Philips Philetta 4. Me l’ha regalata un amico il giorno in cui ha scovato, in una fiera per audiocostruttori, una Philips Philetta 3 perfettamente funzionante. La mia ha la manopola di sintonizzazione rotta: funziona solo girandola in senso orario. Motivo per cui, da che mi è stata regalata, è costantemente sintonizzata su Radio Tre.
La Philetta 4 ha due manopole posizionate entrambe sul lato destro, a poca distanza l’una dall’altra. Una serve per accendere e regolare il volume, l’altra, appunto, per scegliere un canale radio. Essendo così vicine e perfettamente identiche, senza neppure un simbolo che le renda riconoscibili, potrebbe capitarmi di utilizzare la manopola sbagliata e anziché regolare il volume sintonizzare la Philetta su qualche stazione locale in cui trasmettono, ad esempio, musica indie.
L’inconveniente, come si vede, può avere conseguenze terribili, eppure mi ostino a conservare la Philetta. Non si tratta di ragioni affettive: non ho mai provato affezione per le persone attraverso gli oggetti. Deve esserci qualche altra spiegazione. Una spiegazione che, oltre a prescindere dal fattore estetico (la Philetta 4 non ha un design particolarmente accattivante), va anche oltre le sue caratteristiche tecniche.
Se penso ai decaloghi che gli esperti di design si sono presi la briga di stilare, mi accorgo che la mia radio non possiede nessuno dei requisiti che le permetterebbe di avere una forma piacevole, corretta e adeguata alla sua funzione.
Ora, siccome i decaloghi degli esperti di design tentano di dare una risposta al desiderio degli uomini di non sentirsi inadeguati rispetto agli oggetti, ho ragione di credere che il fascino della mia Philetta stia tutto nella sua coraggiosa ribellione alle pretese di usabilità, ergonomia, efficienza…
Ogni volta che, dimenticando quale sia la manopola per regolare il volume, sto per girare quella di sintonizzazione, con il rischio di perdere per sempre Radio Tre, ogni volta che maledico la mia inettitudine, la Philetta ribalta la questione: perché voglio a tutti i costi sentirmi all’altezza di un oggetto?
Che si tratti di uno strumento di lavoro, un mezzo di svago, un utensile per cucina o un soprammobile, che l’abbia comprato o ricevuto in regalo, sono naturalmente portato ad affrontare la questione dal punto di vista del consumatore: l’oggetto deve semplificarmi la vita e non complicarmela. Perciò, di fronte ad una porta, ad una calcolatrice, un dado o una collana, pretendo la loro completa sottomissione.
In “La caffettiera del masochista” Donald Norman sostiene che un oggetto, per essere davvero utile e pratico, deve invitare all’uso in modo chiaro, deve far capire immediatamente a cosa serve e come si usa. Deve essere pratico e deve perfino inviare messaggi di ritorno che diano la certezza di aver usato l’oggetto in modo corretto. Un oggetto che, per poter piacere e vendere, rinunci a queste caratteristiche è frutto di un cattivo progetto.
La Philetta mi spinge a sovvertire questa teoria. Non che ritenga divertente, la mattina, accorgermi di essere in terribile ritardo perché non sono riuscito a puntare correttamente una nuova e complicatissima radiosveglia, o dover impiegare minuti preziosi nel tentativo di aprire la porte a scomparsa della cucina, o ancora essere costretto ad accendere tutti i fornelli di un piano cottura progettato in modo tale che sia impossibile indovinare a quale fornello corrisponde quale manopola. Semplicemente, trovo incredibilmente utile l’effetto spiazzante di una cuccuma per il caffè con manico e beccuccio dallo stesso lato. Nel continuo ripetersi di gesti meccanici quella cuccuma, progettata in modo così assurdo, costringe l’uomo a scantonare, ad uscire dalla liturgia (ormai del tutto inconsapevole) della colazione.
Perciò, quando Jacques Carelman ha stilato il suo Catalogue d’objets introuvables, doveva avere in mente qualcosa di diverso dal puro nonsense. L’oggetto che sovverte in modo fine a se stesso non può avere i lampi e le illuminazioni dell’oggetto inutilizzabile. Finirebbe per diventare esercizio di stile… canone. Ma in un colino dotato di tappi, in uno scacciamosche con largo foro al centro (perciò definito umanitario), nella comoda scala con pantofole al posto dei pioli, nella bicicletta schiacciasassi o nella macchina da cucire con motore animale, in tutti questi oggetti, che sono l’esatto contrario dell’oggetto ben fatto teorizzato da Donald Norman, c’è meno canone dei “ready made” di Duchamp e più ironia dei “cadeau” di Man Ray.
Quell’aggettivo, introuvable, si riferisce forse all’impossibilità di reperirli nella vita di tutti i giorni, di acquistarli sul mercato, di rapportarsi a loro come consumatori. Perché non sono comodi, non sono efficienti, non sono utili né pratici. Non sono neppure realmente scomodi. Il loro design non è realmente sbagliato. Perché non devono necessariamente essere usati, né essere usati per uno scopo definito, non devono piacere né attirare l’attenzione. Non devono essere comprati.
Il colino non nega la sua natura, semplicemente gli è stata aggiunta una funzione in più (che, rendendolo mestolo, è anche opposta rispetto a quella originaria). Lo scacciamosche umanitario ha una funzione in meno, se così si può dire, che rende l’oggetto umanitario e non semplicemente inefficiente.
Così la mia Philetta 4, che resta pur sempre una radio, ha una menomazione che la rende unica (una volta persa una stazione non la troverà mai più) e al tempo stesso insostituibile (nessuna radio con memorizzazione digitale dei canali mi renderebbe ogni volta così contento di ritrovare Radio Tre esattamente dove l’avevo lasciata). Un oggetto, la mia Philetta 4, incredibilmente simile alla calcolatrice semplificata di Carelman, quella con solo 5 tasti: l’1, il più, il meno, il diviso e l’uguale.

Mauro Orletti

Un commento

  1. Fabio

    “Oggi siamo intrappolati in un mondo creato da tecnologi per altri tecnologi. Ci è stato persino detto che ‘essere digitali’ costituisce una virtù. Non è vero: gli individui sono analogici, non digitali; biologici non meccanici.
    Prefazione della prima edizione di Il computer invisibile

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