Un rapimento mistico e sensuale

È stato Wagner ad inventare il golfo mistico, quello spazio del teatro che si trova più in basso della platea, quella specie di buca in cui si sistema l’orchestra. Nel golfo mistico i musicisti diventano praticamente invisibili e così il pubblico, in quel bellissimo stato di tensione che precede lo spettacolo, è pronto a concentrarsi sull’evento scenico e solo su quello.

In effetti Wagner, quando parlava di questa sua invenzione, diceva mystischer Abgrund, che non vuol dire golfo mistico. Il mystischer Abgrund, in realtà, è un abisso mistico.

Per esempio agli anglosassoni non sarebbe mai venuto in mente di tradurre la parola abisso con golfo. Gli anglosassoni, che evidentemente associano all’aggettivo mistico un movimento ascensionale verso le supreme sfere celesti, lasciano perdere golfi e abissi e molto più semplicemente fanno accomodare gli orchestrali nell’orchestra pit dove pit sta per incavo, buca. Fra l’altro in inglese c’è anche un’espressione, it’s the pits! che si usa per dire che un luogo, mettiamo il luogo di lavoro, è un vero inferno.

Nel discorso mistico tedesco, invece, l’abisso convive molto tranquillamente con l’idea della contemplazione estatica del divino, con la cognitio experimentalis Dei. Per esempio c’è un mistico tedesco, di Breslavia, tale Angelus Silesius, che componeva cose così:
L’abisso della mia anima chiama sempre a gran voce
L’abisso di Dio: dimmi, qual è più profondo?

Comunque, senza troppo divagare, la buca dell’orchestra, l’orchestra pit, l’inferno spalancato sotto i piedi degli orchestrali, è un’immagine molto più vicina all’invenzione wagneriana di quanto lo sia la versione italiana del golfo mistico… molto suggestiva, per carità, la versione italiana. Però, onestamente, ingannevole.

Fra l’altro la versione anglosassone è sicuramente la più fedele. Nell’agosto 1876, alla prima assoluta della tetralogia L’anello del Nibelungo alla Festspielhaus di Bayreuth, Wagner sprofonda l’orchestra sotto il palcoscenico e, per renderla del tutto invisibile, la copre con una specie di conchiglione. Allora, per leggere gli spartiti, gli orchestrali sono costretti ad accendere le candele sicché il mystischer Abgrund diventa una buca disgraziata senza ricambio d’aria.

Allora, mentre sul palco si mette in scena la storia di questo anello che, siccome è stato fuso con l’oro rubato alle Ondine, è un anello speciale, mentre da dietro le quinte spunta un tale Alberich che, grazie a questo anello, costringe il popolo dei Nibelunghi a vivere da schiavo in un abisso, mentre un tale Wotan, divenuto il nuovo re degli dei, scende nello stesso abisso per affrontare Alberich (in un movimento contrario al movimento mistico ascensionale), mentre sul palco accade tutto questo, i musicisti collassano uno dopo l’altro.

It’s the pits! Un vero inferno.

Poi anche i francesi usano l’espressione fosse d’orchestre, fossa dell’orchestra, ed anche gli spagnoli dicono el foso para la orquesta sicché anche qui, come si vede, non c’è nulla che richiami alla mente un’immagine così mediterranea come il golfo mistico. La fossa, per noi italiani, ha un’accezione decisamente poco nobile – basti pensare alla fossa biologica per lo smaltimento delle acque nere – o addirittura macabra… la fossa comune. E dunque, non rassegnandoci a collocare un’intera orchestra nei gironi di un abisso che, per quanto mistico, ha un riconoscibilissimo odore di zolfo, la adagiamo al riparo di un golfo mistico dove, a tratti, riusciamo perfino a immaginare una piacevolissima brezza marina capace di voltare le pagine degli spartiti.

La verità è che il nostro abisso mistico, per chissà quale paradosso architettonico, è invece il suo esatto opposto: il loggione. Il Loggione offre i posti più economici, fra cui quelli in piedi, che non si possono prenotare e si devono comprare prima dello spettacolo rispondendo ad una serie infinita di appelli effettuati nelle ore più scomode della giornata. Eppure il Loggione è la trincea dei melomani, la postazione dalla quale dominano il teatro, il luogo in cui si rifugiano per assistere alla prima e a tutte le repliche successive.

Conosco un loggionista di professione (perché loggionisti, dice lui, si può essere solo di professione) che segue l’intero cartellone e, di ogni spettacolo, tutte le repliche. Cinquant’anni di onorata carriera.

Non so se sia vero, ma oggi, dopo cinquant’anni di onorata carriera, dice di essere interessato solamente al breve momento in cui i musicisti accordano gli strumenti. Dice che in quel momento lì, e solo in quel momento lì, la musica è talmente spiazzante e sgranata che si sente rapito in una vera estasi mistica. Nel linguaggio della prova, dice lui, c’è una tale disarticolata omogeneità che nessun direttore riuscirebbe ad eguagliare… salvo posare la bacchetta, impugnare le code del frac e dare testate contro il leggio.

Sì sì, dice sempre il mio amico melomane, appena il cervello rinuncia a filtrare, appena la matassa di note arriva dentro come un crampo allo stomaco, allora non sento più il caldo, non sudo e non mi accorgo dell’enorme lampadario che arroventa il soffitto. Poi, quando il campanello trilla per la terza volta e le luci scendono, e il maestro compare nel golfo mistico e i musicisti smettono di far musica e si preparano ad ubbidire, ecco io, allora, rientro in me. E dopo che sono rientrato in me vado via ed esco dal teatro. Ma dall’uscita principale, perché quando si esce si può uscire dall’uscita principale. Di secondario c’è solo l’ingresso.

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