Te càmbiet cera

Non so come prenderla. Vorrei parlare di poesia ma come si fa a parlare di poesia?

Cume me pias el mund! L’aria, el so fiâ!
j àrbur, l’èrba, el sû, quj câ, i bèj strâd,
la lüna che se sfalsa, l’èrga tra i câ,
me pias el sals del mar, i matt cinâd,
i càlis tra i amís, i abièss nel vent,
e tücc i ròbb de Diu, anca i munâd,
i spall che van de pressia cuj öcc bass,
la dònna che te svisa i sentiment:
l’è lí el mund, e par squasi spettàss
che tí te ‘l vàrdet, te ghe dét atrâ,
che lü ‘l gh’è sempre, ma facil smemuriàss.
tràss föra ind i pernser, vèss durmentâ…

Parlare di una poesia così, ma come si fa? Franco Loi dice che la poesia non è in alcuna situazione. Casomai c’è una situazione sociale che corrisponde più o meno alla situazione della poesia. Dice anche che la poesia non è altro che poesia, in qualsiasi lingua sia detta. Attenzione: detta, non scritta. Perché lo scrivere, secondo Loi, è già una traduzione. E lui non traduce. Lui fa. Si dedica al fare. Un fare spirituale. Cita Dante: I, mi son un che quando/ Amor mi spira, noto e a quel modo/ ch’ei ditta dentro vo significando.

Cioè il poeta, anche secondo Dante, è quello che non si lascia scappare le cose che gli passano dentro, le fa emergere ad un livello, diciamo così, cosciente. Nota e annota quel che la poesia gli detta dentro. E intanto aspetta che si manifesti “la voce”.

Poi, quando si manifesta la voce, il poeta non la traduce, lascia che anima e corpo partecipino all’evento del dire. In questo modo evita che la cultura s’impadronisca della mente e che la mente asservisca il corpo. Aiuta il corpo fare “un balzo all’indietro” e l’interiorità ad esprimersi al di là della dittatura della mente.

Quando la voce si manifesta, può succedere di tutto.

Può succedere che il poeta sbagli e arrivi qualcuno a correggerlo. Non sarà un letterato, questo è ovvio. E non lo correggerà per questioni di cultura. “Una volta mi ricordo che correggendo le bozze di Mondadori, un tipografo ha sbagliato e mi ha messo una parola diversa, e io ho detto: ma guarda, è bellissimo, questa qui mi da una luce straordinaria a tutto il verso“.

La voce che si manifesta a Loi è il Milanese. È la voce dei campi di futbol, del Parco Lambro, delle sezioni di partito, dello Scalo Merci di Smistamento, della guerra, delle fucilazioni, delle lotte operaie, delle battaglie politiche. La voce che si manifesta a Loi è una voce politica. La poesia è politica perché dice all’uomo ciò che ancora non conosce di sé e della natura. Politica al di fuori delle ideologie, delle dottrine e delle “culture intellettuali”. Al di fuori del potere. La lingua poetica ha troppa dimistichezza con la comunità e lo Spirito per essere la lingua del potere.

Insomma Loi segue alla lettera il consiglio di Leopardi che, nello Zibaldone, dice più o meno questo: bisogna stare vicino al popolo che parla perché il popolo che parla “è più vicino alla natura e privo di logica”.

Stare vicino al popolo che parla è un modo di essere. Poeti si è, non si diventa. Casomai si smette di esserlo. Al limite la poesia è un modo per rientrare in se stessi (il balzo all’indietro). Che non è per niente facile.

Paolo Nori dice che una volta ha sentito Loi ammettere di esser stato poeta solo due volte, nella sua vita, una volta nel 1971, per un mese, e un’altra volta, qualche giorno, nel 1974.

È dura. Però quando ci riesci, quando riesci a rientrare in te stesso, quando riesci a darti da fare, la poesia diventa finalmente quello che è: nient’altro che poesia.

Ma quan’ che riva l’umbra de la sera,
‘me che te ciama el mund! cume slargâ
te vègn adòss quèl ciel ne la sua vera
belessa sena feng nel so pensàss,
e alura del tò pien te càmbiet cera.

Te càmbiet cera. La voce si manifesta e cambi colore. Cambi faccia. Non piacerà a tutti, quella faccia, ma tant’è, è quella e per un po’ la tieni su.

Una volta Fortini, sentendo un discorso di Loi è sbottato dicendo: “Sei un idiota!”. E Loi gli ha risposto “Per questo sono un poeta”.

Mauro Orletti

[Franco Loi, Da bambino il cielo, Garzanti 2010]

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