(Una voce fuori dal coro)
Ho atteso diversi anni, non saprei dire con certezza quanti. Ogni volta visitavo il sito di UmbriaJazz e mi rammaricavo di non poter partecipare ad una festa così sontuosa. Il tutto a causa di una palese incompatibilità tra gli appuntamenti fissi ed un lavoro imprevedibile. Poi i lavori imprevedibili si cambiano, gli appuntamenti fissi restano. Ed allora, UmbriaJazz quest’anno si legge UmbriaJazz07.
Ed io, stavolta che posso, ci vado cazzo!
Keith Jarret Trio. O, a voler rendere il giusto onore anche agli altri due (grandi) musicisti: Keith Jarret, Gary Peacock e Jack Dejhonette. Trio che quest’anno, tra l’altro, festeggia i 25 anni di sodalizio.
Perugia è un carnaio e lo si capisce anche a due settimane e 269km di distanza. Ci si son messi pure degli scienziati con un loro convegno a complicar la faccenda. Sfido la sorte e trascino in questa avventura anche una giovane amica (se se, amica…). Prendo i biglietti (56 euro cad.) e solo dopo ci buttiamo alla frenetica ricerca di un albergo.
Tutto sommato non ci è andata male. Troviamo ospitalità, a pagamento naturalmente, in un paesino poco distante dove un albergo si è insediato tra le mura di un edificio risalente al XIV sec.
Arena di S.Giuliana e la sua biglietteria, ritiro, apro e gioisco come un bambino sventolando i due tagliandi. C’è tempo, ed allora ci arrampichiamo sul colle Perugino alla ricerca dello Store Egea dove mi esibisco in uno dei migliori pezzi del mio repertorio: lo shopping impulsivo! Avevo avvisato la mia accompagnatrice di tenermi a bada, ed invece mi ha lasciato solo davanti a bacheche di dischi troppo invitanti…
Via giù dal belvedere sino ai cancelli dell’arena e al settore D, fila D posti 69 & 70. Primo commento: fa freddo. Secondo commento: l’arena non è una cornice così speciale: un po’ spoglia quasi squallida. Uno studente conduce un’indagine sull’impatto economico della manifestazione sulla città. Tra me e la ragazza, ovviamente sceglie di intervistare lei. Magari tra una domanda e l’altra le avrà anche scucito il numero di telefono…
Si spengono le luci e la febbre sale. Avendo ceduto il giubbino alla ragazza scossa dal freddo, temo che, se non la febbre, almeno un bel maldigola&raffrreddore non me lo toglie nessuno.
Il presentatore implora gli spettatori di non scattare foto. L’idiosincrasia di K.Jarret nei confronti di flash ed affini è di dominio pubblico. Almeno di questo pubblico.
Entrano i tre. Lui, il leader, va verso il microfono. Mi illudo voglia dire qualcosa per introdurre la serata. In poche ma comprensibilissime parole nel suo idioma anglosassone per niente sporcato dall’accento della Pennsylvania, ricopre di insulti tutti i potenziali fotografi improvvisati (quelli “accreditati” non scatteranno questa sera) spiegando che loro, i musicisti, si riservano il diritto di sospendere il concerto.
Del resto, spiega, è un privilegio per noi esser lì ad ascoltar loro e non viceversa. La scenata da bisbetico del jazz viene accolta tra fischi (di chi non sa o non capisce) e dagli applausi divertiti di chi conosce la bestia.
Poi inizia la musica e credo sia assolutamente superfluo ricordare come suonino i tre. Ho letto di critici che hanno esaltato la performance di Mr. Peacock ritenendo l’esibizione dei due restanti, appena nella norma. Certo, se la norma delle esecuzioni fosse quella ascoltata questa sera, sarebbe sempre un gran bel sentire!
Fine primo tempo, ci vorrebbero un paio di giri di corsa dell’arena per scaldarsi un po’. Ma non servirebbe a nulla.
Il secondo tempo inizia ispirato così come era terminato il primo, dopo un iniziale rodaggio dalla durata ragionevolmente breve. Solo 30 min., il giusto per aspettarsi dei bis.
“Solo i fighetti fanno i bis” secondo il Maestrone; per fortuna i jazzisti devono essere un ammasso di fighetti.
I tre tornano sul palco e, alle mie spalle, vedo partire due lampi. No, l’hanno fatto! Qualcuno parlerà di un motherfucker arrivato all’indirizzo di K. Jarret dal pubblico. Lui non si scompone più di tanto: si dirige nuovamente al microfono e spiega che loro, semplicemente, non suoneranno più. Spariscono ed immediatamente si accendono le luci che illuminano la platea. E’ un chiaro segnale della fine della festa.
Ci alziamo e puntiamo verso l’uscita. Qualcuno fischia, qualcuno grida “scemo” qualcun altro strappa i biglietti.
K. Jarret è un tipo singolare, soffre di una malattia psicosomatica (sindrome da affaticamento cronico), chi lo ascolta e lo conosce lo sa.
K. Jarret quando non era ancora uno dei più grandi artisti viventi, in una intervista dichiarò di avere paura di come avrebbe reagito al raggiungimento della fama (se mai vi fosse arrivato); temeva quella che sarebbe potuta essere la sua reazione. In fondo, il genio di questo 62enne, permeava anche da quel timore. Aveva visto in lontananza quell’uomo che dal palco di UmbriaJazz avrebbe insultato pubblico pagante (Ministro Rutelli e sig.ra compresi) e la città tutta che dal 1974 lo ha sempre accolto con calore.
Mentre litigo con la voce del navigatore satellitare che non ne vuole sapere di farmi imboccare la strada per l’albergo penso e ripenso a quel coro che gridava “scemo”. E sono ancora convito che quel dannato fotografo se lo sia meritato…
Alessandro Boldi
