“Sino a diciassette anni non avevo letto nulla.(…) Musica e pittura – forme, colori – mi apparivano più vere di tutti i libri conosciuti […]. In seguito con quale foga, tanto ne avevo bisogno, mi sono buttato in Stendhal, su Dickens, su Dostoevskij, e contemporaneamente, su Mallarmé, Apollinaire, Max Jacob, Valery! Montagne e Proust – pensiero lingua – mi hanno straordinariamente colpito”. Questa dichiarazione di Robert Bresson a “Le Monde” nel 1971 ci introduce pienamente al legame del regista con la letteratura. Il suo cinematografo – l’antitesi del teatro fotografato, cioè il cinema – si trova meglio a dialogare con la pittura e la letteratura che con le immagini in movimento. Si potrebbe dire che la pittura ha nutrito il suo occhio, la letteratura il suo pensiero, e che il suo cinematografo sia la loro composizione frammentata, che isolando gli spazi del reale – che di per sé non è drammatico – giunge alla “miracolosa” creazione del dramma. Dopo il bizzarro Affaire Pubbliques (1934) e l’intenso Les Anges du péché (La conversa di Belfort, 1943), Bresson gira il primo film tratto da un’opera letteraria, Les dames du bois de boulogne (Perfidia, 1945), da un racconto di Diderot, i cui dialoghi sono scritti da Cocteau. Più che di una rilettura, si tratta di una “rifondazione” del testo. Già sono presenti gli elementi della scarnificazione e dell’essenzialismo, che diverranno tipici e più radicali nei film successivi. Un film non ancora completamente spogliato della drammaturgia ma che paradossalmente somiglia più ad una tragedia raciniana che non ad uno scritto di Diderot. Dopo una pausa di sei anni Bresson gira Journal d’un curé de campagne (Diario di un curato di campagna 1951), dall’omonimo romanzo di Bernanos. Molti critici parlano di tradimento del romanzo, ma è Bazin che si differenzia con osservazioni, come suo solito, particolarmente acute sulla capacità del regista che non si limita alla “ripetizione di un’opera”, creando invece “un romanzo moltiplicato dal cinema” mediante una “dialettica fra l’astrazione e la realtà, grazie alla quale a noi si rende palpabile soltanto la realtà delle anime”.
Un condamnè à mort s’est èchappé (Un condannato a morte è fuggito, 1956) prende spunto dal racconto-testimonianza di Devigny, cui vengono sottratti gli elementi psicologici e la dilatazione didascalica. I “Cahiers du Cinema” oramai ritengono Bresson l’unico padre da salvare insieme a Renoir. Godard è il più convinto sostenitore: “egli è il cinema francese come Dostoevskij il romanzo russo e Mozart la musica tedesca”. Bresson giunge al suo vertice con Pickpocket (1959), che per Malle, forse esagerando, è il suo primo film. Certamente Malle intende sottolineare che la sua poetica è qui che giunge pienamente a definirsi, con la sua radicalità e la sua concentrazione espressiva. Il non-attore protagonista (cioè il modello bressoniano) è un ladro che vive e soffre la sua esperienza come fosse una vocazione; un paradosso che lega il film a Delitto e Castigo, ma anche – per il carattere interno“autobiografico”, quale scansione di un diario- a Diario del ladro di Genet. Tuttavia la vicinanza a Dostoevskij non è solo tematica, ma è dentro le immagini: una soffitta, un letto sgangherato, i libri coperti dalla polvere. La casa è il rifugio del protagonista, tra una sortita e l’altra nella città, non altro che un frammento spaziale che comunque non offre protezione, come accadeva a Raskol’nikov: è il cosiddetto “cinema interiore” di Bresson, che si conferma con Procès de Jeanne d’Arc (Processo a Giovanna d’Arco). Ormai Bresson rifiuta qualsiasi forma di intreccio, di recitazione, per un cinematografo che con questo film si dichiara anche anti-storico. Giovanna d’Arco rivive oggi sullo schermo e parla di sé rivolgendosi al Presente. Il film storico è invece una farsa, che oltre a non parlare al presente, finge ipocritamente di essere Passato.
Tornando alla dialettica tra cinema e letteratura, si può dire che il regista francese ha dato vita ad un personaggio singolare e straordinario, genialmente legato al principe Miskin de l’Idiota di Dostovskij. Il protagonista di Au hasard Balthazar (1966) è un asino (appunto Balthazar), che è lo sguardo triste sulle cose, sugli eventi, sulle persone che automaticamente compiono il male, uno sguardo morente sul e nel mondo. In un passo lo scrittore russo paragona Miskin ad un asino, l’animale che passa per idiota. Ma sappiamo bene che, dice Bresson, “è il più fine e intelligente di tutti”. Il regista torna a Bernanos con Mouchette (1967), anche questo un film sulla delusione di uno sguardo puro, uno sguardo però più aspro, sgraziato, reattivo e duro. Una negazione frontale. I dialoghi sono molto fedeli al romanzo, ma si avverte in numerose scelte un indurimento della materia che cambia non di poco l’equilibrio complessivo del testo. Insomma la realtà del film è decisamente più cruda, che fa di Mouchette l’ennesima incarnazione dell’alterità assoluta, che solo con la morte trova la liberazione da un mondo senza Grazia.
La presenza di Dostoevskij diventa esplicita nei due film successivi: Une femme douce (Così bella, così dolce, 1968) e Quatre nuits d’un reveur Quattro notti di un sognatore, 1972), rispettivamente ispirati a La mite e Le notti bianche. Nel primo caso il regista è scrupoloso nel riprendere testualmente i dialoghi, oggettivare i ricordi del protagonista, ma è anche radicale nel riprendere, come scrisse Moravia, “tutto fuorché la psicologia”. Ma l’obiettivo di Bresson è di creare due poli, un dissidio tra due ottiche inconciliabili: lo spessore spirituale della donna, la mediocre normalità del marito. La solitudine avvolge anche le notti bianche bressoniane: “i miei sforzi vanno sempre verso una vita interiore. La vita solitaria di Jacques si prestava a questo con molta naturalezza”. Il protagonista narratore e Nàstjenka diventano Jacques e Marthe, la San Pietroburgo ottocentesca la Parigi post-sessantottina. Un film più libero degli altri, che ancora attraverso uno sguardo, quello di Jacques, ci rende vivo il dolore dell’essere esclusi, della sconfitta dell’amore, con un finale più pessimista di quello del testo, mancando della riconciliazione tra i protagonisti. Con Lancelot du Lac (Lancillotto e Ginevra, 1974), Bresson rilegge il romanzo allegorico del Graal di Chrétien de Troyes, attraverso l’ellissi e la frammentazione, dotando di un potere evocativo alle immagini straordinario. Quando il film inizia la Cerca è finita, ridotta, prima dei titoli di testa, a una sequenza di immagini staccate, non accompagnate da una diretta ricostruzione degli avvenimenti. Si crea così un mondo senza coerenza, senza ordine né totalità. Da ciò nasce la Cerca che, come dirà uno degli eremiti: “non è di cose terrene ma celesti”. Dopo Le diable probablement (Il diavolo probabilmente, 1977), trascorreranno sei anni per un nuovo film, il suo ultimo, questa volta tratto dal racconto La cedola falsa di Tolstoj. Si tratta di L’argent (1983). Rispetto al racconto l’idea di riscatto e di redenzione viene spostata solo alla fine, come conferma il regista, “cioè attraverso il gesto di Yvon che si consegna alla polizia”. Forse è il film più puro e duro di Bresson, dove la soppressione dell’artificio è assoluta, con un potere straniante senza precedenti. Il denaro cancella il sacro, ed è l’esperienza radicale del male che, come ha scritto Perlini, “si esaspera al punto da rovesciarsi nel suo opposto”.
La conclusione del rapporto tra Bresson e la Letteratura è affidata a Peter von Bagh: “Probabilmente nessun regista – russo o no – ha mai colto lo spirito della grande letteratura russa meglio di Robert Bresson. […]. Non c’è niente altro nell’intera storia del cinema simile a L’argent nel modo in cui va direttamente, senza alcuna “materia” o intermediazione, al cuore stesso del mondo letterario”. Vedere per credere.
