Un romanzo breve e sconfinato

“Il Concilio di Nicea” di Francesco Berlingieri (Eretica edizioni 2025) è un libro di confini e di attraversamento di confini. Parliamo di confini geografici, certo: la vicenda si svolge in una città, nel quartiere di una città, nel cortile di un palazzo. Lo sguardo dell’autore si allarga dall’uno all’altro, oltrepassando i limiti che li separano: una via, un ponte o una piazza. Questi limiti non sono astratti, esistono concretamente, risultano addirittura invadenti. I bordi della città, ad esempio, sono raggiungibili, si può guardare al di là di essi, ci si può sedere sopra. Anche se non è detto che restino sempre gli stessi. Posso infatti spostarsi, cambiare forma man mano che le periferie divorano ciò che sta fuori, lo urbanizzano e lo rendono banale con raccordi, cavalcavia e condomini.

Berlingieri, nel suo libro, segue i confini, ce li indica, talvolta li oltrepassa. E quando accade il suo sguardo si sposta, assecondando l’azione. Può volare alto, facendo percepire lo spazio nella sua ampiezza, oppure abbassarsi, permettendo di assumere il punto di vista dei giovani protagonisti del racconto. Che sono bambini di dieci anni o poco più, desiderosi di mettersi alla prova, di affrontare le proprie paure, di portare a termine una sfida che, forse, cambierà la loro vita e li farà sentire adulti.

Ecco un altro confine presente nell’opera. Quello che separa le generazioni. L’autore ci racconta giovani e giovanissimi come somma di personalità, di storie e di sguardi. Gli adulti, al contempo, vengono relegati dai figli in una quarta dimensione, talora incomprensibile, certamente macchiata da un peccato originale: l’aver barattato la dignità ereditata da tutte le generazioni precedenti in cambio di facili e assurde comodità. Si ha un po’ la sensazione, leggendo, che la distanza fra i due mondi – quello dei figli, non ancora tarato dalla modernità e derubato dell’epica guerresca dell’eroe antico, e quello degli adulti, sedato e soddisfatto – sia destinata ad aumentare.

Alcuni adulti de “Il Concilio di Nicea” hanno un salvacondotto che permette di varcare le soglie, infrangere muri divisori. Uno di questi è Mimmo il meccanico, l’unico a potersi prendere la libertà di scherzare con i ragazzini. “Per piglio, forse, o per conformazione fisica. Per estro”. Quando accade, in un modo talmente misterioso e naturale da sembrare magico, altri adulti possono prendersi – per un attimo – la stessa libertà.

In una società che corre verso magnifiche sorti e progressive, inebriata da incipienti rivoluzioni tecnologiche e solide economie del cemento, qualcosa di effettivamente magico continua a sopravvivere, sotto forma di superstizione o di scaramanzia toponomastica. “Oggi, nello slargo che porta ancora il nome storpiato della Strega – anche se sono sempre di meno quelli che sanno il perché – ci sono minuscoli frantoi. E botteghe di lapicidi, ché il camposanto è a due passi. Poco oltre il limes”. Sono i bambini, ça va sans dire, ad accorgersi di questi scampoli d’incanto, ad abbandonarsi al mito, ad appropriarsene per mezzo della fantasia. Dove antico e moderno si toccano, sull’ennesimo confine, lì, i figli, edificano un nuovo Olimpo.

Berlingieri ha un modo del tutto originale per indicarci questo Olimpo. Dissemina il testo di improvvise incursioni da parte del barbaro ancestrale: “Non sarà facile fuggire dalla nostra roccaforte. Gli affetti saranno tutti sui bastioni. Qualcuno potrebbe essere colpito al polpaccio da un freccia partita dalle feritoie”. O ancora: “In loro – refrattari ai cambiamenti epocali – non si è insinuato il desiderio struggente che fu dei navigatori oceanici. O dei sovrani spagnoli”. E di nuovo: “E finalmente rasserenati, sulla battigia di un mondo scampato alla catastrofe nucleare, abbiamo potuto votarci al consumo delle morbide Fruit Joy, che resistergli non puoi. Cosa che, di sicuro, non poté fare Enrico VIII Tudor”. Infine: “Questi adulti qui innescano l’aperitivo dove brillavano le fiamme di Cartagine. E parlano d’altro”.

In questo modo, pagina dopo pagina, un altro confine viene superato: Storia e aneddotica, cronaca e narrativa, passato e presente si mescolano in una vicenda (apparentemente) minima che però, nella rincorsa verso il finale, diventa universale. Ossia quella del bambino che, raccogliendo una sfida e portandola a termine, scopre di che pasta (sostanza) è fatto. Ossia quella del bambino generato, non creato, della stessa sostanza del padre. Del Figlio generato, non creato, della stessa sostanza di Dio. Questione (apparentemente) minima, eppure destinata a sconvolgere una singola esistenza, un’intera generazione, l’umanità tutta.

Come è sempre esistito il Padre, allo stesso modo è sempre esistito il Figlio. Non è esistito un tempo in cui il Figlio non è stato, non è esistito un tempo prima del Figlio. Nessuna distinzione. Nessun confine. Consustanzialità. È quanto viene stabilito, appunto, nel Concilio di Nicea.

Lo si può sperimentare in prima persona, lo si può raccontare, lo si può far vedere (come fa Berlingieri) dimostrando che, non appena valicato, un confine non è più tale.

Lo si può stabilire per dogma, attraverso minaccia d’anatema. Marcando, per paradosso, l’ennesimo limite.

Mauro Orletti

[Francesco Berlingieri, Il concilio di Nicea, Eretica 2024]

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