O Dio onnipotente ed eterno, volgi il Tuo sguardo di misericordia su questa terra piagata dalle lacrime e dal sangue.
«L’anno 1764, il giorno 17 aprile, l’illustre e potentissima dama, Madame Jeanne Antoinette Poisson, marchesa di Pompadour e di Menars, dama di Saint-Oüen presso Parigi e di altri luoghi, dama di palazzo di Sua Maestà la Regina, deceduta l’altro ieri all’età di 43 anni, è stata da noi sottoscritti curati trasportata presso i Cappuccini di Parigi, luogo della sua sepoltura, alla presenza dei signori Pierre Benoist e Sébastien Lefevre, i quali hanno apposto la loro firma». È quanto si legge nel registro parrocchiale a proposito del funerale dell’amante e consigliera del re di Francia. Funerale che, appunto, si conclude nel convento dei Cappuccini. Madame de Pompadour non può essere sepolta a Saint-Denis, dove per tradizione riposano i membri della famiglia reale. L’etichetta di corte, per giunta, impedisce a Luigi XV di partecipare al funerale. Il sovrano deve accontentarsi di guardare il feretro mentre si allontana da Versailles, sotto la pioggia. Commenta: «Voilà la seule femme qui m’ait jamais aimée».
La morte di Madame de Pompadour è un colpo tremendo per il re, che reagisce tenendosi alla larga dagli affari di stato e passando la maggior parte del tempo nei suoi appartamenti, dai quali esce solo per andare a caccia. I diplomatici stranieri, nei loro dispacci, lo descrivono abbattuto e distratto.
O glorioso San Privat, vescovo e martire, proteggi le nostre campagne.
La morte è uno spettro con cui Luigi XV deve far i conti per tutta la vita. All’età di due anni ha già perso nonno, genitori e fratello maggiore. Quando anche il bisnonno Luigi XIV passa a miglior vita (se si può parlare di miglior vita per un sovrano noto su questa terra come “Re Sole”) il giovane erede resta completamente solo. E più tardi lui stesso rischia di morire per mano di uno squilibrato che lo accoltella all’esterno della reggia di Versailles.
Nell’estate del 1764, quando il dolore per la scomparsa dell’amante è ancora vivo e lacerante, arrivano terribili notizie dalla regione del Gévaudan. Pare che un flagello divino si sia abbattuto su quella terra remota. A parere del vescovo di Mende, nonché conte di Gévaudan, una creatura mostruosa è stata mandata da Dio per punire uomini, donne e bambini. Ordina perciò di esporre il santissimo sacramento in tutte le chiese della diocesi e, per tre domeniche di seguito, impone il digiuno e quaranta ore di preghiera.
Santa Enimie, consolatrice dei miseri e madre dei dolenti, intercedi in nostro favore affinché questo flagello devastatore abbia fine.
Il flagello devastatore fa la sua comparsa nell’estate del 1764, non lontano dal borgo di Langogne. Qui una giovane ragazza che bada al bestiame, quel giorno stranamente irrequieto, viene assalita da una belva feroce. Riesce a fuggire e, tornata in paese, racconta quel che è capitato. La cosa più probabile è che si tratti di un lupo perciò, senza perdere tempo, vengono informate le autorità. I soldati mobilitati, però, non riescono a trovarlo e allora si fa avanti il conte Jean-François Charles de Morangiès, personaggio inquietante e su cui girano strane voci. Il nobiluomo chiede di poter guidare un drappello di ufficiali alla caccia dell’animale ma la sua richiesta viene respinta.
San Rocco, scudo dei contagiati e conforto degli abbandonati, liberaci dalle piaghe che dilaniano il corpo e l’anima.
Il 30 giugno, non lontano da Langogne, il lupo attacca nuovamente e questa volta sbrana una ragazza di quattordici anni. Poi fra luglio e settembre vengono uccisi altri tre giovani e una donna. Alla fine dell’anno si contano oltre quindici attacchi, quasi esclusivamente a donne e bambini. La Gendarmeria Reale è al corrente delle aggressioni e il Governatore Militare della regione, conscio della gravità del problema, incarica l’ufficiale di cavalleria Jean Boulanger Duhamel di guidare cinquantasette dragoni all’inseguimento del lupo. Finalmente, il 22 dicembre, l’animale viene avvistato. Duhamel lo descrive così: «La bestia del Gévaudan non è certamente un lupo ma uno strano e sconosciuto ibrido».
San Ilpide, fedele servitore di Dio, veglia sulle nostre case e sulle nostre famiglie.
Il giorno dopo il capitano Duhamel sposta la milizia nei pressi del castello di La Baume, dove una donna è stata sbranata. Nascosto fra gli alberi, scorge la bestia a pochi passi da lui, punta il moschetto e si prepara a far fuoco. Proprio in quel momento spuntano alle sue spalle i dragoni a cavallo. L’animale, allarmato dal rumore, fugge ancora una volta e pochi giorni dopo, a Saint-Juéri, uccide una donna mentre è intenta a raccogliere delle erbe aromatiche nel suo giardino. Sembra che la creatura disdegni le pecore e attacchi per lo più donne e bambini. A cui spesso stacca la testa. Questo particolare è indubbiamente interessante: in quel momento la testa del sovrano è considerata il centro sacro del regno. Perciò, vedere le teste dei sudditi rotolare nei campi pare a molti un presagio funesto.
Intanto Duhamel costringe i suoi uomini a travestirsi da donne. Per una decina di giorni, dal 10 al 22 gennaio 1765, uno spettacolo mai visto prende vita nei campi del Gévaudan: due dragoni sono costretti a indossare cuffia, camicia, gonna, grembiule e zoccoli da lavoro e a far da esca spostandosi fra boschi, pascoli e terreni coltivati.
San Ilario, vescovo zelante, illumina le nostre anime e fortifica la nostra fede.
L’umore di Luigi XV è nerissimo. Un semplice lupo tiene in scacco un’intera regione ed i suoi ufficiali mandano in giro soldati vestiti da donne. Emana perciò un editto con cui promette all’uccisore della bestia un premio di seimila livres, cioè lo stipendio di un anno di un alto funzionario. Eppure, ogni tentativo di uccidere il lupo fallisce e alla fine del mese le vittime sono già ventisette. A febbraio Duhamel organizza una caccia generale di proporzioni inaudite: ventimila cavalieri, cacciatori, soldati, contadini e tiratori scelti accerchiano l’animale armati di moschetti, sciabole, picconi, pale e forconi. Sembra non abbia scampo e invece riesca a fuggire e, poco dopo, azzanna due bambini del villaggio di Montel. La caccia non si ferma ma anche le battute di marzo sono un buco nell’acqua.
San Frézal, martire della fede, porta la pace e la sicurezza nei nostri villaggi.
Nonostante la volontà di tenersi fuori dagli affari di stato il Re deve nuovamente intervenire. Ordina a Duhamel di ritirarsi e al suo posto invia Jean-Charles Marc Antoine Vaumesle d’Enneval, gran cacciatore reale e sterminatore di lupi (si dice ne abbia uccisi oltre milleduecento). D’Enneval giunge sul posto assieme al figlio e comincia subito a raccogliere informazioni utili. Poiché i testimoni interpellati descrivono il lupo come una bestia colossale, con grosse fauci e artigli enormi, chiede che gli vengano inviati altri uomini e altri cani. Ma mentre lui attende i rinforzi, l’animale continua a fare vittime. La conta supera i sessanta. La Gazette de France e lo Zeitung von Köln scrivono articoli fiume sul caso. Il Courrier d’Avignon commenta: «la bestia deve avere un’intelligenza pari alla straordinaria agilità dimostrata, perché, venuta a conoscenza dell’arrivo di d’Enneval, evita accuratamente di confrontarsi con lui». La stampa inglese si fa beffe della Francia: «un esercito di 120.000 uomini tenuto in scacco da un solo lupo!».
San Giuliano di Brioude, martire e pellegrino, conduci i viandanti e i pastori salvi tra le selve e i monti.
L’ironia dei giornali stranieri e la paura della gente sono ormai sintomo di sfiducia verso la corona. Le campagne sprofondano nella fame e nella superstizione e il popolo, che aveva acclamato il giovane Luigi XV come un salvatore, lo accusa ora di vivere in un lusso esagerato e di essere totalmente indifferente al destino dei francesi. La monarchia, sfuggente e spietata, non è molto diversa dalla bestia del Gévaudan.
Luigi XV è ovviamente allarmato da questa situazione. Sostituisce d’Enneval con François Antoine de Beauterne, ufficiale della Camera Reale, cavaliere dell’Ordine Militare di San Luigi, sottotenente della Capitaneria Reale, luogotenente di caccia e Gran Portatore di Archibugio. Il 16 giugno lui, il figlio, otto capitani della guardia reale, sei guardiacaccia, quattro segugi e un levriero, iniziano la ricerca della creatura. A metà luglio il Gran Portatore di Archibugio sposta i suoi uomini a Besset, nell’area in cui vengono rinvenuti i resti dell’ottantesima vittima della bestia. Sul finire dell’estate, finalmente, vengono trovate delle tracce. Nel tentativo di assalire una pastorella, che però è armata, il lupo riporta una ferita piuttosto seria che lo rallenta e lo fa sanguinare.
Santa Afra di Béziers, pura di cuore e ardimentosa, proteggi madri e infanti dagli artigli e dalle zanne del demonio.
A metà settembre, nei pressi di Saint-Julien-des-Chazes, accade ciò che si attende da mesi. I cani cominciano a latrare sempre più forte, segno che hanno trovato una pista e, finalmente, attraverso una nebbia malsana e opprimente, si fa avanti la bestia. Il Gran Portatore di Archibugio è preparato: ha con sé una spingarda di quasi due metri, un cavalletto d’appoggio, trentacinque proiettili da lupo. Con uno di questi riesce a centrare un occhio della creatura, che indietreggia barcollando e poi cade. Si rialza quasi subito ma, a quel punto, un guardacaccia di nome Rinchard spara il colpo fatale.
San Saturnino di Tolosa, martire intrepido, liberaci dalla furia della bestia insanguinata.
Guardando l’animale a terra Rinchard e il Gran Portatore di Archibugio non hanno dubbi: è la bestia del Gévaudan. Nel rapporto inviato alle autorità reali si legge: «Ciascuno di noi non ne ha mai visto uno di uguale grandezza, forza, peso, grossezza e lunghezza delle quattro zanne, avendo anche il più grande piede di lupo che abbiamo mai visto e che come avevamo notato dalle sue impronte, piantava le sue unghie per più di un pollice nel terreno». L’esame della carcassa permette di stabilire che la bestia è lunga centoquarantatré centimetri (coda esclusa), alta ottantasette (al garrese), con un peso di sessantatré chilogrammi e mezzo (sangue escluso). Una volta impagliata, viene trasportata alla corte di Parigi. Il re, soddisfattissimo, dichiara ufficialmente scomparso il flagello del Gévaudan.
Santa Enimia, sorella dei poveri e degli infermi, guarisci i feriti, consola gli afflitti, e restituisci speranza alle nostre terre.
Difficile immaginare il senso di disperazione e angoscia che assale la gente della regione quando, dopo soli tre mesi, il massacro ricomincia: due giovani pastori vengono sbranati a Margeride.
Per Luigi XV il peggio deve ancora venire. Il 20 dicembre muore di tubercolosi suo figlio, Luigi Ferdinando, erede al trono di Francia. Il re è atterrito da quell’ennesima disgrazia e, di sicuro, non ha più energie da dedicare al Gévaudan. Anche i cacciatori abbandonano la regione e i giornali sono ormai stufi di scrivere della bestia.
Alla fine del 1766 le vittime sono più di cento e a quel punto il rimedio più semplice è la censura: se non è possibile far sparire l’animale dalle terre del Gévaudan, lo si può far sparire da giornali, elenchi e resoconti di ogni autorità, distretto o parrocchia della Linguadoca. Abbandonata a se stessa, alla popolazione non resta altro che pregare.
San Fulcrano di Lodève, protettore di poveri e ammalati, abbi pietà degli orfani, dei vedovi e dei miseri colpiti dalla bestia crudele.
18 giugno 1767: la vittima è un bambino di nove anni del villaggio di Desges. Vengono radunati alcuni cacciatori che, seguendo le tracce della creatura, si dirigono verso i monti della Margeride. All’alba del giorno dopo centinaia di battitori coi cani iniziano l’accerchiamento mentre i tiratori si appostano nei punti migliori. Fra questi c’è Jean Chastel. Oltre che contadino e birraio, Chastel è anche servitore del conte di Morangiès, il nobile che, all’inizio di questa storia, si propone – ma senza successo – di guidare la caccia alla bestia. Chastel fa benedire i suoi fucili e prepara dei proiettili facendo fondere medagliette della Vergine. il 19 giugno, appostato nella foresta della Tenazeyre, attende con pazienza il passaggio della bestia. A metà mattina un mostro entra nel suo campo di tiro: recitata una breve preghiera, prende la mira e preme il grilletto del suo fucile.
San Germano di Capua, predicatore di pace, placa il cuore degli uomini e scaccia il male che si cela tra le ombre.
Le campane rintoccano a festa e in un lampo la notizia raggiunge anche i villaggi più lontani. La bestia è stata uccisa. Questa volta per davvero. Dopo il 19 giugno, infatti, non si registrano altri attacchi. Quelli annoverati nei registri parrocchiali, in un arco di circa tre anni e prima che la censura impedisca di aggiornare l’elenco, sono duecentosettanta, di cui centotrentuno mortali.
Ma Jean Chastel, l’eroe del Gévaudan, commette due grandi errori: fa impagliare malamente l’animale e invece di partire subito per Parigi perde tempo mostrandolo in tutti i villaggi. Arriva a Versailles solo ai primi di agosto, con una carogna puzzolente in completa decomposizione. Luigi XV nemmeno lo riceve e ordina l’immediata distruzione della carcassa: non ha alcuna intenzione di screditare Antoine de Beauterne, ufficiale della Camera Reale, cavaliere dell’Ordine Militare di San Luigi, sottotenente della Capitaneria Reale, luogotenente di caccia, Gran Portatore di Archibugio e vero uccisore della bestia. E di certo non desidera tributare onori a un rozzo coltivatore e birraio, oltre che servitore dell’ambiguo conte di Morangiès. Girano voci, infatti, che dietro gli attacchi della bestia possano nascondersi la mente perversa del conte e la mano assassina dello stesso Chastel.
E in ogni caso, la corona non vuole apparire incapace di proteggere i sudditi del regno e non vuole che ai sudditi venga in mente l’idea di difendersi da soli. Contro la stessa corona, se necessario. In molti opuscoli anonimi, infatti, la Bestia viene definita “il volto nascosto della Francia” e la monarchia “il cacciatore che volta la testa dall’altra parte”. E avvertono: oggi cadono le teste dei contadini, domani cadranno quelle dei nobili.
Per l’intercessione di tutti i santi e sante che hanno onorato questa terra del Gévaudan, Ti supplichiamo, o Signore, tiene per sempre lontano da noi questo flagello devastatore, affinché possiamo lodarTi e servirTi in tutta quiete.
La rivoluzione, nei campi del Gévaudan, ha già iniziato il suo cammino. Sulle zampe di una bestia, “uno strano e sconosciuto ibrido”.
