Storie dell’universo mondo

Storie di Guelfi e Ghibellini (Pendragon 2024) di Roberto Colombari è un romanzo storico. Il romanzo storico è un genere che, a quanto pare, non è mai tramontato. Dando uno sguardo agli scaffali delle librerie ci si accorge di quanti titoli vengano quotidianamente pubblicati. Se è facile spiegare perché un lettore scelga di acquistare un romanzo storico, potendo – a partire dall’ambientazione – selezionare il periodo che preferisce, o il personaggio che lo appassiona, o il luogo, perfino il singolo evento da cui è affascinato (il Rinascimento, Ivan il Terribile, la Persia, la battaglia di Lepanto), più difficile è comprendere cosa spinga un autore a complicarsi così orrendamente la vita.

Tornare indietro nel tempo, rievocare fatti accaduti nei secoli passati, raccontare le biografie di uomini e donne su cui si è esercitata la fantasia di scolari adolescenti o la penna di dotti studiosi, ricostruire ambienti e atmosfere in cui si annidano i sogni e le inquietudini dell’inconscio contemporaneo, è certamente un’impresa da pazzi. I rischi sono innumerevoli: commettere errori, scivolare nel luogo comune, cedere alle faziosità affinché gli eventi prendano una piega coerente con la storia che si vuole raccontare.

D’altro canto, lo scrittore è spesso spinto da una qualche mania, da piccole ossessioni che lo costringono a dedicare giorni, mesi ed anni ad eroi, leggende, misteri dai quali non ha nemmeno la certezza di cavare qualcosa di buono. Lo sanno bene i suoi amici, colleghi e parenti che, loro malgrado, devono fare buon viso a cattivo gioco di fronte all’entusiasmo – manifestamente patologico – con cui l’autore condivide, durante una cena o una pausa caffè, la scoperta di un tassello mancante, di una fonte creduta irreperibile, di un documento capace di sostenere uno sviluppo narrativo altrimenti troppo esile.

In vent’anni, dal 2004 ad oggi, Roberto Colombari ha scritto sei romanzi di ambientazione medioevale (La chiamavano Regina, Del guasto di Bologna, Bologna. Cronache di guerra e di peste, D’oro e del Rosso, Lo stendardo di sangue, Storie di Guelfi e Ghibellini), il che lo rende a sua volta un personaggio perfetto per un differente genere letterario: la narrativa clinica di Oliver Sacks o Philippe Tissié.

D’altra parte, se pensiamo a Il nome della rosa, L’isola del giorno prima, Baudolino, Il cimitero di Praga, possiamo tranquillamente affermare che la compagnia non è affatto scarsa, né per numero né per qualità. Il riferimento alle opere di Umberto Eco non è casuale. Nel suo primo romanzo è presente un particolare artificio letterario. Nelle pagine che anticipano il prologo si legge di un manoscritto, su cui è basata la traduzione in italiano della storia oggetto del racconto, contenente interpolazioni dovute a diversi autori, dal medioevo fino all’epoca moderna. Questo tipo di espediente permette di giustificare errori più o meno consapevoli. Per esempio, la comparsa dei peperoni in un’epoca antecedente rispetto alla scoperta dell’America o la scansione del tempo in secondi, misura temporale sconosciuta nel Medioevo. Anche nel libro di Roberto Colombari il narratore, discendente di Giovanni Corforati, sostiene di basare il proprio racconto, datato 1390, sul manoscritto da lui composto (circa cent’anni prima). Inoltre, al termine della cronaca, compare una nota del redattore che ci avverte riguardo la sua datazione: certamente posteriore al XIV secolo. Per finire, così come l’autore del testo ha rinnovato il linguaggio di Corforati, allo stesso modo il redattore ha rinnovato quello dell’autore. Accortezza legittima, se si considera che il romanzo si sviluppa per più di quattrocento pagine.

Tutto inizia nel 1237, quando nella battaglia di Cortenuova le forze ghibelline dell’imperatore Federico II di Svevia sconfiggono quelle guelfe della Lega Lombarda. È solo una delle tante battaglie che vedono contrapposte le due fazioni. Alla Fossalta, nel 1249, l’esito è opposto (tanto che il figlio di Federico II, Re Enzo, finisce nelle mani dei Bolognesi). Prima di morire, cosa che accadrà di lì a poco (nel 1250), lo “stupor mundi” offre un misterioso riscatto per liberare il suo discendente: un cerchio d’oro capace di circondare e proteggere l’intera Bologna. Di cosa si tratta? È quello che il lettore deve scoprire seguendo le avventure di Giovanni Corforati.

E qui, va detto, si tratta di avventure nel pieno senso del termine. Il protagonista, tuttavia, non coincide con la tipica figura del “trickster”, cioè l’eroe che domina la scena compiendo azioni di dubbia utilità e più spesso dannose, azioni difficilmente spiegabili razionalmente perché del tutto indipendenti da un desiderio predefinito. Qui il desiderio c’è eccome, e consiste nello scoprire cosa si nasconde dietro il riscatto che Federico II è disposto a pagare per la liberazione del figlio. Ma più si va avanti nella lettura, più gli indizi vengono raccolti e sapientemente ordinati per ricomporre il puzzle, più la vita di Giovanni Corforati appare indissolubilmente legata al cerchio d’oro e più si fa strada la sensazione che non sarà lo scioglimento del mistero ad offrire un senso alle innumerevoli battaglie combattute, al sangue versato, alle amicizie distrutte, agli amori perduti.

È forse questo uno degli elementi cruciali del libro, ciò che fa di Storie di Guelfi e Ghibellini un romanzo storico alquanto originale. I continui capovolgimenti di fronte, i tradimenti, le brame di potere, gli inganni dei cavalieri, le meschinità dei tiranni, la smaccata ipocrisia con cui la Chiesa – per mezzo dei suoi cardinali e perfino del Papa – agisce in base a interessi tutt’altro che alti e nobili, le convenienze di parte e le avidità familiari, tutto questo priva l’«universo mondo» di qualunque ragionevolezza umana o lungimiranza divina. Ci sarebbe di che disperare ma, in fondo, è proprio la disperazione ad offrire le risorse per infilarsi nelle avventure più improbabili. È come se, nelle pagine di Roberto Colombari, l’avventura dipendesse dalla capacità del suo protagonista di cacciarsi nella situazione di chi è ormai senza speranza.

Guelfi e Ghibellini, partiti in eterna lotta, sono divisi da insegne – papali e imperiali – apparentemente inconciliabili. In realtà risultano spesso mutevoli, talora addirittura indistinguibili. Sarebbe bello si trattasse di una faida eterna, di campi neri e bianchi, di armate celesti radunate per schiantare falangi demoniache. Il papa e le sue schiere protetti della croce, gli svevi e i loro alleati già lambiti dalle fiamme dell’inferno. Una visione del mondo per blocchi contrapposti in cui ognuno sa da che parte stare. Il romanzo ci dice che le cose stanno diversamente. Perfino il despota sanguinario, il signore della marca trevigiana, quell’Ezzelino da Romano che Dante spedisce all’inferno sommerso in un fiume di sangue, sembra a tratti più giusto dei cardinali che affollano le stanze di San Giovanni in Laterano. E lo stesso protagonista, anche lui non si fa scrupolo a saccheggiare, uccidere, violentare. Sicché la missione che lui stesso ha deciso di attribuirsi, e che lo spinge ad agire con la stessa forza con cui Angelica manda in subbuglio la mente di Orlando nel poema ariostesco, non rappresenta in alcun modo un percorso di redenzione.

Secondo lo scrittore Gianni Celati nell’Orlando furioso i cavalieri amano «scozzonarsi come montoni che si prendono a cornate». E questo perché animati da passioni infantili che li costringono a «moti fisici irrefrenabili e maniacali». Gli eroi dell’antichità, dal canto loro, lottavano guidati da una divinità o da una forza demoniaca e, per questo, le loro azioni sono in un certo senso ritualizzate. Quelli di Ariosto, come detto, sono invece preda di sacri furori. La scienza guerresca ha però segnato il tramonto di questo genere di eroi: la battaglia diventa una partita a scacchi, qualcosa di anonimo e astratto in cui non c’è spazio per l’immaginazione. Sempre Celati porta ad esempio la prima grande descrizione d’una battaglia moderna, ossia quella di Waterloo descritta da Stendhal in La certosa di Parma. Qui Fabrizio del Dongo, che milita nell’esercito di Napoleone, non è neppure in grado di comprendere esattamente quel che sta accadendo. Alla fine, infatti, si domanda: «Ma ho davvero partecipato alla battaglia di Waterloo?».

Le battaglie combattute in Storie di Guelfi e Ghibellini hanno qualcosa di estremamente originale. Per un verso, infatti, paiono combattute con la stessa foga con cui gli eroi cavallereschi «si prendono a cornate», d’altro canto, a differenza di questi ultimi – che neppure cercano di comprendere quale sia il motore primo delle loro azioni – tendono a problematizzare il loro presente, a cercare un fine ultimo che dia senso al proprio destino. Senza tuttavia riuscirci. Momento emblematico è il racconto del primo scontro cui partecipa Giovanni Corforati: l’elmo che indossa, infatti, gli impedisce di seguire a dovere l’evoluzione dello scontro nel suo complesso e perfino l’azione dell’avversario che affronta. Più avanti, quindi, decide di combattere con protezioni più leggere, che non ostacolino i suoi movimenti e la sua visuale. È come se Corforati rifiutasse il ruolo prestabilito di pedina anonima. E così, in un mondo diviso in blocchi contrapposti – Guelfi e Ghibellini appunto – ciò che conta non è tanto da che parte stare, non essendo il bene tutto da una parte e il male tutto dall’altra, ma il modo in cui si sceglie di schierarsi, il momento in cui si decide di farlo, il fine ultimo che spinge a farlo. Tre punti fermi in un «universo mondo» in cui giusto e sbagliato, eretico e ortodosso, cattolico e infedele, oriente e occidente sono altrettante variabili indipendenti. Per le quali, sembrerebbe suggerire l’anonimo autore della cronaca di Giovanni Corforati, non vale la pena ammazzarsi più di quanto non valga la pena «scozzonarsi come montoni» per una principessa del Catai.

Mauro Orletti

[Roberto Colombari, Storie di Guelfi e Ghibellini, Pendragon 2024]

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