“Tutto quello che non doveva succedere”, per dirla in estrema sintesi, è un libro fatto di voci, voci raccolte in giro per Roma a proposito di tutto quello che non doveva succedere, e cioè che la Roma perdesse la finale di Coppa dei Campioni del 30 maggio 1984 e che il segretario del Pci Enrico Berlinguer morisse di lì a poco, l’11 giugno 1984.
Vengono in mente alcuni esempi di lavori elaborati in modo analogo, raccogliendo voci, montandole, componendo un racconto polifonico, fatto di frammenti, ridondanze, perfino discordanze, punti di vista differenti, intuizioni, pause e silenzi. “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini potrebbe essere uno di questi. Anche nel libro di Cardoni, infatti, ogni tessera contribuisce alla ricostruzione del quadro complessivo. E la tessera alle volte si incastra perfettamente, alle volte no. Ma bisogna tenerla lì, fiduciosi, perché prima o poi servirà a legare altri pezzi. Non tutto si incastrerà a dovere, forse avanzerà qualcosa, ci saranno parti mancanti. Non importa. Il quadro sarà comunque chiaro e nella sua imperfezione restituirà ancor meglio quello che, in genere, non entra nelle rappresentazioni troppo fedeli.
La prima cosa che non doveva succedere è che la Roma perdesse la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. La sconfitta è un momento traumatico, un dramma che il tifoso romanista – a distanza di quarant’anni – non ha ancora metabolizzato. Ancora oggi non sa da che verso prendere quella sconfitta, non sa come raccontarla. Fa fatica. Cardoni, quindi, asseconda questa difficoltà. Lascia che il racconto adotti gli stessi espedienti narrativi del tifoso: ci gira un po’ attorno, si concentra sul prima, sul dopo, su ciò che non ha visto, su ciò che ha sentito, su quello che gli è rimasto. Anche sui segni premonitori: l’incauto acquisto di una bandiera con su scritto “Roma Campione D’Europa”, oppure la sfavorevole congiuntura astrale: «te posso dì una cosa pure sui rigori? Dato che Liedholm io so che era un astrologo, non avrei mai fatto tirà i rigori a Bruno e Ciccio perché Bruno è dei Pesci e Ciccio del Sagittario e quella sera stavano sotto scacco dell’astrologia in modo tremendo e ciavevano tutto contrario». Si procede poi gradualmente fino ad entrare nello stadio: in curva, nei distinti, perfino in tribuna d’onore. Lì compare Enrico Berlinguer. Un’epifania: non dà segni di emozione, non si scompone, non si dispera. Come se anche lì, in quel momento, mantenesse intatta la sua essenza di uomo schivo, timido, un po’ chiuso.
L’altra cosa che non doveva succedere è che il segretario del Pci morisse. A quel giorno, l’11 giugno, si arriva, in modo del tutto naturale, percorrendo i cento metri e rotti del campo da calcio, giocando la finale di Coppa dei Campioni. Il racconto di quel che è successo all’Olimpico, infatti, è paragonabile al racconto di un certo modo di intendere la politica. Ben sintetizzato da alcuni slogan comparsi sui muri della capitale (in quel primo scorcio di anni Ottanta) ed evocate nelle pagine del libro: «Ma quale Berlinguer, ma quale Ingrao, Falcão è il nostro Mao». Altrettanto efficaci le parole aggiunte a pennarello in calce all’avviso Il marxismo nei nostri giorni nella sezione del PSI del Quarticciolo: «Me dispiace ma stasera c’è la Roma». Intuizione che, in un certo senso, è una presa di distanze dal marxismo (e quindi dal Pci) ancor più forte di quella tentata da Craxi con l’articolo “Il Vangelo socialista”, pubblicato su L’Espresso nel 1978. Il tentativo è azzardato: sbarazzarsi di Marx e rimpiazzarlo con Proudhon. Comunque Martelli, De Michelis e gli altri fedelissimi di Bettino non hanno mai letto Marx, figurarsi Proudhon. E la cosa muore lì.
Dallo strano intreccio fra calcio e politica Cardoni lascia emergere anche altro: la testimonianza del riflusso, del disimpegno, del ritorno alla sfera privata. Poco importa se coincide con solitudine ed eroina. «C’era chi aveva smesso de drogasse pe la Roma perché o me drogo o me compro i bietti, quindi la Roma è stata utile per il sociale». Tutto quello che non doveva succedere, evidentemente, riguarda anche questo: abbandonare strade, piazze e luoghi in cui sentirsi parte di una comunità per rifugiarsi nella solitudine e nell’eroina. Ancor più azzeccata risulta, perciò, la scelta dell’autore di omettere i nomi delle persone intervistate e di sostituirle con i luoghi cui le voci appartengono: Piazza Navona, Tufello, Verano, Viale Marconi, Circo Massimo, Trastevere, Quarticciolo, Monti, Piazzale Clodio, Piazzale Jonio, Ponte Milvio, Garbatella. Una topografia della crisi, zone che si tirano dietro una precisa weltanshaung: «cioè mi padre nasce a Rione Monti e poi viene a Garbatella e la peggio cosa che te pò succede nella vita è avecce a che fa co un monticiano della Garbatella: so du stronzi insieme, perché il monticiano è quello che s’oppone al trasteverino, no? Trasteverini e monticiani litigano da sempre. Allora dopo te pompano un altro po’ de stronzaggine e diventi della Garbatella e mi padre è la persona più pacifica del mondo ma se tu je parli della Garbatella diventa matto».
Poi però arriva la sconfitta. E ci si chiude in casa. E come dice un’altra voce, di Trastevere, si smette di fare caciara. Dove la caciara è la voce della città, almeno di quella che non ha ancora vissuto il 30 maggio e l’11 giugno. La sfera privata, d’altra parte, è anche la sfera della famiglia, padri e figli allo stadio, amici davanti al televisore. «Io me sò innamorato alla Roma quando m’abbracciavo co mi madre mi padre e mi nonno» dice una delle voci registrate da Cardoni. E quindi, quel che il libro dimostra in modo chiaro, è che una partita, una sola partita, è in grado di abbracciare tutto.
La sconfitta in finale di Coppa dei Campioni, dunque, ha davvero qualcosa a che spartire con la morte di Berlinguer. Non è solo una vicinanza temporale. Lo si capisce gradualmente anche perché, nel libro, Berlinguer, il Pci e la politica arrivano per gradi. All’inizio pochi accenni, marginali. Poi il calcio cede terreno alla politica e si crea una sorta di equilibrio fra i due mondi: Falcao che rifiuta di tirare il rigore e (forse) contribuisce alla sconfitta, Berlinguer che rifiuta di trattare coi socialisti e (forse) stronca sul nascere ogni possibilità di socialdemocrazia in Italia.
Dal semplice equilibrio fra due mondi si passa alla contaminazione: «adesso le cose sò cambiate, ce stanno i gruppi di destra ma all’epoca erano due cose sovrapposte e quelle furono due giornate tragiche perché comunque noi per la maglia e per il partito abbiamo tifato gente come Gurenko e votato gente come Orfini capito? Cioè quella è gente che ha tifato Gago Fuser Poggi e Grenier è la stessa che ha votato Milana, Foschi, Marroni, Mancini che è pure laziale». Le tifoserie calcistiche e quelle politiche, le violenze dell’una e dell’altra parte, i capitani e i segretari, le sconfitte sul campo e quelle elettorali, tutto si mischia.
Finché irrompe la morte, in fragoroso, come l’esplosione di un coro da stadio: «oggi un romanista comunista è un deficiente come Rambo che torna dal Vietnam che innanzitutto non je devi cacà er cazzo e poi è uno che ha visto la morte, uno che è connesso a una storia molto più grande». Una frase incredibilmente semplice e incredibilmente vera. Che costituisce la migliore spiegazione possibile della connessione fra tutto quello che non doveva succedere e anche, più in generale, fra il mondo dello stadio e quello della piazza. Due dimensioni collettive che stanno dentro a qualcosa di diverso: il corpo mistico della squadra e il corpo mistico del partito (quello fotografato da Ghirri e citato nella copertina del libro). E la voce dei romani (romanisti e comunisti) fa da cassa di risonanza al loro sguardo, uno sguardo disteso e rilassato che arrivare a comprendere la Roma antica, quella risorgimentale, quella contemporanea, quella di Mastro Pasquino, Garibaldi, Rugantino, Berlinguer, Conti e Di Bartolomei. Finché, insomma, questa dimensione collettiva prende la forma del Noi: noi romanisti, noi comunisti. E questa cosa è spiegata benissimo da una voce femminile che a un certo punto osserva: «tipo quando a Roma ci stanno i momenti importanti ci sono stati sempre tutti a Roma tutti sono stati dentro Ben Hur, tutti quelli che oggi cianno da una settantina d’anni in su, magari che stanno in zona Tuscolana, tutti ti dicono Io c’ero oh, ma non me riconosci? Ero quello là che stavo in quella scena vestito da antico romano. Io sto in quell’inquadratura lì. Vattelo a vedere, io ho fatto la comparsa Ben Hur. E se non sò loro, sò i figli che dicono che il padre o il nonno stava dentro Ben Hur». Non è protagonismo, millanteria o spacconata, è proprio il fatto di voler stare dentro al Noi, partecipare anima e corpo all’evento, per quanto disgraziato sia.
Insomma stesse persone, stesse croci da portare, stessa ingenuità e uguale nostalgia (tant’è che Cardoni chiama i capitoli centrali “Lamentanze” e “Tormentazioni”). Si potrebbe anche dire che quando succede tutto quello che non doveva succedere, il modo di affrontare il lutto lascia emergere un tratto unico e profondamente romano, cioè l’orgoglio per aver vissuto tutto ciò che ha condotto a quel dolore. Chiamiamolo pure “fatalismo”. L’orgoglio di essere romanisti e aver perso la finale di coppa dei campioni, l’orgoglio di essere comunisti e aver perso la sfida coi democristiani, coi socialisti, coi forzisti. La Roma e il Pci, due “gioiose macchine da guerra”.
Persa la guerra arriva il silenzio. Rumore e silenzio sono ciò che si alterna fra dentro e fuori lo stadio, fra prima e dopo la finale di Coppa dei Campioni, fra prima e dopo la morte di Berlinguer. Rumore e silenzio appartengono alla stessa dimensione sonora, senza il rumore non ci sarebbe il silenzio e viceversa. E questo libro, che è fatto di voci, voci che parlano in continuazione, ha dentro molta caciara ma anche molto silenzio.
Lo si capisce dalla copertina, che cita la foto in cui Luigi Ghirri ritrae Berlinguer, di spalle, sul palco della festa dell’Unità di Reggio Emilia, davanti ad una folla enorme. Una folla rumorosissima e, al tempo stesso, una folla in religioso silenzio per ascoltare le parole del Segretario. La moglie Paola racconta che, quando Ghirri rientrò a casa, la sera, era turbato e commosso. Mentre posava sul tavolo i rullini ancora da sviluppare disse: «Erano come dei pellerossa, appoggiati alle transenne per essere in prima fila, c’era gente che arrivava addirittura dalla Sicilia, qualcuno si è sentito male, erano lì in piedi fin dal mattino e oggi era caldissimo». Forse, se ci fosse stato modo di intervistare quei pellerossa, Cardoni avrebbe raccolto testimonianze molto simili a quelle scelte per il libro. In fondo, non è da escludersi che fossero sempre loro: a Reggio Emilia e allo stadio Olimpico. Sempre loro, cioè sempre Noi.
[Andrea Cardoni, Tutto quello che non doveva succedere, Fandango Libri 2024]
