Dodici anni fa abitavo a Bologna in via Tovaglie e una notte, assieme ad un amico di Leonessa, abbiamo scoperto che al civico numero 10, mi pare fosse il 10, c’era una targa che diceva che al civico numero 10 aveva abitato e composto versi il poeta Pier Jacopo Martello, padre del verso martelliano, che in arcadia prese il nome di Mirtilo Dianidio come il Gravina quello di Opico Erimanteo o il Metastasio quello di Artino Carosio.
Pier Jacopo Martello è un nome che se lo ripeti due volte, così: Pier Jacopo Martello Pier Jacopo Martello, hai composto un verso martelliano di due settenari in rima baciata. Pier Jacopo Martello ed Eustachio Manfredi sono due nomi che pronunciati assieme formano anche loro un verso martelliano ma senza rima. A parte questo, Martello e Manfredi, fondano la succursale bolognese dell’arcadia romana e la chiamano colonia Renia ed ospitano chiunque abbia voglia di zufolare, lo convincono della necessità di affrancare il mondo, gli mettono una pelliccia sulle spalle per farlo sentire un vero arcade perché così fanno anche nella capitale. Infatti a Roma gli arcadi mettono la pelliccia sulle spalle, anche Cristina di Svezia che nel frattempo ha abdicato, trovato il modo di diventare una brava cattolica, si è sistemata ed ha fondato l’accademia d’arcadia.
È ottobre e l’ottobre romano non è l’ottobre di Svezia. È mite, quasi caldo, e dentro la pelliccia si suda. In una sala chiamata bosco Parrasio si suda e si tengono riunioni, si suda e si mette insieme un archivio di zufolamenti, si suda e si monta un’insegna chiamata sampogna di Pan, si suda e si proclama urbi et orbi, con la benedizione della curia, che occorre sterminare il cattivo gusto e procurare che più non abbia a risorgere dovunque si annidi, fino nelle castella e nelle ville più ignote o impensate, si suda e si affossa ogni Nuova Atlantide ed ogni nuova Città del Sole, mentre la Città Eterna, per via dell’abbigliamento fuori stagione, mette in saldo filosofia: meno umanesimo e più ambientalismo, meno guerra e più amore, meno commercio e più musica, meno industria e più pecore, meno città e più tratturi, meno idee e più zampogna.
A questo punto bisogna dire che il mio amico di Leonessa è un poeta. E siccome, al giorno d’oggi, vivere di poesia è impensabile, ha dovuto cercarsi un lavoro. Così è diventato pastore, nel senso di pastore di ovini. Però laggiù, nel profondo Lazio, fra le castella e le ville più ignote o impensate, non si è mai coperto le spalle con una pelliccia. Eppure anche lui, come Martello, è convinto della necessità di affrancare il mondo. Non c’è dubbio, dice infatti l’amico poeta di fronte al civico numero 10, dobbiamo affrancare il mondo. Certo però, aggiunge, questi qua dell’arcadia erano proprio dei fregnoni.
Leonessa non assomiglia per niente al paese in cui, secondo Polibio (lui sì abitante d’Arcadia, ma l’Arcadia peloponnesiaca), tutti quanti, dai più piccoli ai più vecchi, dai neonati agli ultracentenari, tutti proprio tutti venivano esercitati al canto. E via con pellicce, boschetti e zampogne di Pan. Che Pan suonasse la zampogna è comunque da dimostrare. Che la chiamasse sampogna e non sampogne, cornamusa, piva, suoni, zampogna o ciaramedde, per dire, è tutto da dimostrare. Comunque Leonessa è un paese i cui abitanti sono negati per il canto, inteso nel senso di canto intonatissimo e zufolante. Devono averci un difetto genetico per cui, quando si provano a zufolare, gli viene fuori un sibilo fastidioso come la sirena di un’ambulanza con la batteria scarica.
Questo spiega, almeno in parte, il motivo per cui la zampogna di Leonessa – zoppa, zoppa amatriciana, zoppa della Valle dell’Aniene, zoppa di sambuco oppure a chiave, a seconda dei casi – viene utilizzata per fare della poesia, cioè per recitare versi e mai, dico mai, per zufolare.
Il mio amico di Leonessa, poeta e pastore, non indossa una pelliccia e non monta scaffali nel bosco Parrasio. Però quando lavora riempie la bisaccia di Ariosto, Leopardi e Tolstoj (i suoi preferiti). E poi dopo, metti su un tratturo, o anche alla guida del camion, perché oggi la transumanza si fa col camion, mentre riporta a valle le pecore, si allena a pescare versi dall’otre di pelle caprina – rovesciata e conciata con verderame – di uno zampognaro. Tanto che, se non lo conoscessi, sarei portato a crederlo l’alias di un Mirtilo Diandio o di un Opico Erimanteo. Ma lo conosco. È il poeta-pastore degli endecasillabi a braccio, delle improvvisazioni in terzine dantesche ed ottave ariostesche, il pastore-poeta che non zufola mai, dico mai, in settenari baciati alla Pier Jacopo Martello.
Mauro Orletti
