Vivere per capire, capire per vivere

Quest’anno vado prima al mare, così ho tempo per pensare
e faccio scorta di pensieri che non bastano mai.
Ne voglio quattro sull’amore, due sul fatto che si muore
voglio avere tutto chiaro, giuro, vedrai

[D. Silvestri, Frasi da dimenticare, 1995]

Ci vorranno giorni per far passare l’odore dell’altra persona, che ti rimane addosso anche senza starci troppo vicino. Forse perché gira nell’aria e si attacca a quello che vuole: una tshirt, una camicia; forse anche a un libro. Così come il sapore della pasta coi ricci ti rimane attaccato addosso, soltanto leggendo Un’estate al mare (G. Culicchia, 2007). Nel libro, ripensando a mesi di distanza all’estate terribile del 2006, quella del vittorioso e scandaloso calcio italiano, Culicchia costruisce una storia a più livelli, come spesso accade nei suoi scritti. Il contorno è ovviamente quello della cronaca, che appare in trafiletti di giornali letti dal protagonista della storia alla moglie, così, ogni tanto. Tanto per ricordare qual è il contesto – tutto italiano, veramente – degli accadimenti. Ma è un piano superficiale, nobilitato solo dalla profondissima ironia dell’autore che, ormai da più di un decennio, bastona allegramente i vizi e i pregiudizi sociali. Con uno spirito critico che ormai è appannaggio di pochi.
Poi ci sono almeno altri due piani. Uno è di storia individuale, di coppia magari, ma ancora superficiale. Gli eventi dei singoli, cioè, che valgono più o meno come quelli del contesto generale in cui essi sono posizionati. La storia nella Storia, per semplificare. O forse solo la sequenza degli accadimenti materiali, contingenti. La vita, cioè. Quella che spesso è considerata l’unica dimensione possibile: il vivere; dormire, svegliarsi; stare soli, stare in compagnia; uscire, entrare. Spesso pare che ci sia solo quello, che si possa raccontare un uomo semplicemente mettendone in fila gli eventi che accadono: il suo dormire, il suo svegliarsi; il suo mangiare, il suo bere; il suo uscire, il suo entrare. E Culicchia è sempre molto abile nel raccontare, da ormai più di un decennio: non annoia mai, come tanti altri autori italiani contemporanei. Inventa situazioni, usa un linguaggio immediato ma mai scontato. Il vivere dei suoi personaggi è adeguatamente ritmato, con accelerazioni che divertono e portano spesso a leggere i suoi scritti in brevissimo tempo.
Poi, però, c’è un ultimo piano: quello intimo dei personaggi, che c’è o non c’è. Che nel protagonista c’è, nella moglie no (ma poteva ben essere l’inverso, sia chiaro). O almeno fino alla fine, quando pare che anche il protagonista rinunci. Rinunci a che? A capire! Scorrendo le pagine emerge chiaramente che la storia, nella storia nella Storia, è la continua ricerca di se stesso del protagonista. Bella forza, si dirà! Non è forse sempre quello? Spesso sembra di no, quando viviamo la nostra vita mettendo in fila gli eventi quotidiani, rinunciando a comprendere il senso della nostra vita come un’unità inscindibile, che sta fuori di noi, dalla quale dobbiamo staccarci, per capire. Insomma: presi come siamo dall’evento che ci sta per accadere (programmato, pianificato per chi programma & pianifica; o accidentale per chi preferisce vivere l’attimo ma, in fondo, sa sempre che qualcosa deve accadere per forza) ci dimentichiamo che senza tenere insieme tutta la nostra vita (passato e presente e futuro) non capiremo mai un bell’accidente accidentale! Appunto!
Con questo abbiamo quindi sostenuto che bisognerebbe capire per vivere: star fermi lì e mettere insieme i pezzi nel nostro cervello: le nostre esperienze, i nostri ricordi; le nostre gioie e i nostri lutti. Però, se ci si ferma, perlomeno si rinuncia a creare nuove esperienze e lutti da rielaborare in futuro. Per capire, si rinuncia a vivere: un passato che fagocita il futuro. Però avevamo detto che se si vive senza volersi fermare a capire, è il presente contingente a mangiarsi il nostro futuro. E il futuro è, fino a prova contraria, l’unica vita che ha ancora senso vivere.
Rompicapo? No, perché il protagonista di Un’estate al mare non è come il George Gray di Edgar Lee Masters (Spoon River Anthology, 1915) che, per paura, non ha vissuto. Forse alla fine non ha capito. Però ha tentato di “vivere per capire & capire per vivere”. Il lavoro doppio che dobbiamo fare tutti quanti. Il suggerimento che, alla fine, rimane come regalo di Giuseppe Culicchia per rivalutare la volgare scandalistica estate italiana al mare del 2006.

Walter Franklin

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