Il 7 novembre 1893, dalla tribuna del quinto piano del Gran Teatre del Liceu di Barcellona, l’anarchico Santiago Salvador Franch lancia due bombe verso il proscenio. La sala è al completo: è in corso la prima del Gugliemo Tell di Rossini. Fortunatamente esplode solo la prima bomba, ma l’effetto è comunque terribile: muoiono ventidue persone. «Il mio desiderio» spiega l’anarchico «era quello di distruggere la società borghese, alla quale l’anarchismo ha dichiarato guerra aperta; e ho deciso di attaccare l’attuale organizzazione della società per impiantare il comunismo anarchico. Non ho deciso di uccidere certe persone. Ero indifferente a uccidere l’uno o l’altro. Il mio desiderio era seminare terrore e paura». Fra le certe persone che Santiago Salvador Franch era indifferente a uccidere ci sono alcuni membri della famiglia Moreu, parenti stretti di Josefa Moreu, detta Pepeta. La donna è il grande amore dell’architetto Antoni Gaudì, sebbene il sentimento non sia per nulla ricambiato. Turbato dalla strage, Gaudì fa inserire nel Portale del Rosario della Sagrada Familia, una scultura che raffigura un operaio tentato dal demonio. La simbologia è chiara: è la seduzione del potere, il desiderio di cambiare l’ordine sociale con la violenza. Infatti il demonio, scolpito con la forma di un lucertolone, offre all’operaio una bomba. Non è una bomba qualunque, è la stessa bomba lanciata da Santiago Salvador Franch al Gran Teatre del Liceu: la bomba Orsini.

La bomba Orsini si chiama così perché viene concepita e utilizzata per la prima volta da Felice Orsini. È un globo di ghisa di piccole dimensioni, formato da due semisfere avvitate, una delle quali circondata da capsule sporgenti riempite di esplosivo. È il prototipo della bomba a mano, l’icona dell’attentato terroristico. In termini tecnologici è bel un salto di qualità, ammesso si possa parlare di qualità a proposito di bombe ed esplosivi. È preparata con fulminato di mercurio. Per chi ha presente la celebre serie tv “Breaking Bad”, nel sesto episodio della prima stagione Walter White affronta a brutto muso il narcotrafficante Tuco Salamanca portando con sé del fulminato di mercurio, preparato in modo tale da sembrare metanfetamina. Quando la situazione sembra sul punto di degenerare lo spericolato Walter White lancia il composto verso la parete provocando un’esplosione devastante. Prima di dileguarsi si rivolge allo sconcertato Tuco Salamanca e gli spiega: «Fulminato di mercurio, le meraviglie della chimica».
Questo per dare un’idea della potenza devastante della bomba Orsini. Che diventa l’incubo dei tiranni e il marchio di fabbrica di radicali, repubblicani e regicidi.
Eppure, nonostante le meraviglie della chimica, Orsini non riesce a realizzare il suo progetto, ossia uccidere Napoleone III. Il 14 gennaio 1858, assieme ad altri complici, è in rue Le Peletier, di fronte all’Opéra. Alle 20:30 arriva la carrozza dell’imperatore, venuto ad assistere a uno spettacolo che prevede, fra l’altro, l’esecuzione di alcuni brani del Gugliemo Tell di Rossini, la stessa opera in programma al Gran Teatre del Liceo durante l’attentato dell’anarchico Santiago Salvador Franch. Esplodono 3 bombe al fulminato di mercurio: in totale muoiono 12 persone, oltre 150 rimangono ferite. Orsini rivendica l’attentato ma nega di aver lanciato l’ordigno. Attribuisce la terza esplosione al gesto di un altro complice, un italiano di cui però non svela il nome. Napoleone e la moglie Eugenia, comunque, sono illesi e, per quanto scossi, possono entrare a teatro per assistere allo spettacolo.
Eppure, nonostante il fallimento, la bomba Orsini diventa un simbolo: deflagra ovunque ci sia una rivolta. 1860: Francesco Crispi, sbarcato in incognito in Sicilia, insegna ai cospiratori mazziniani come si costruiscono le bombe Orsini, micidiale contributo per l’insurrezione di Palermo. 1863: durante la rivolta polacca una bomba Orsini viene lanciata dalla finestra di un palazzo di Varsavia contro il generale russo Friedrich Wilhelm von Berg. 1868: l’ambasciata di Prussia a Londra viene informata dell’esistenza di un complotto per uccidere il re Guglielmo con una bomba Orsini. 1871: durante la Comune di Parigi nei magazzini di Montmartre vengono stipate almeno 600 bombe Orsini. 1881: il gruppo rivoluzionario Narodnaja Volja uccide lo zar Alessandro II lanciandogli contro una bomba Orsini. Il giornalista francese Henri Rochefort commenta: «la bomba Orsini ha fatto per la Russia ciò che Guglielmo Tell ha fatto per la Svizzera».
Ma cosa ha spinto Felice Orsini a realizzare un progetto tanto sanguinario? Il temperamento, di sicuro, è quello giusto. È irrequieto, insofferente all’autorità, sprezzante del pericolo. A 16 anni, mentre è a casa dello zio Orso Orsini – ricco, devoto, severissimo e fedele allo stato pontificio – uccide con un colpo di pistola Domenico Spada, cuoco di famiglia. Secondo Felice è stato un incidente, ma intanto si dà alla fuga mentre lo zio, che ha buoni rapporti con il vescovo di Imola Mastai-Ferretti, riesce a orientare i giudici versa una benevola condanna per omicidio colposo. Nel 1844, durante una perquisizione a casa del padre di Felice, uomo di tendenze liberali con trascorsi nella carboneria, vengono trovate delle carte che gli valgono l’arresto: l’accusa è di essere parte «di società segreta, cospirazioni e congiure contro il sovrano ed il governo, omicidi e fermenti». La società segreta ha un nome che è tutto un programma: “Congiura Italiana dei Figli della Morte”. La condanna, questa volta, è esemplare: ergastolo. Felice, che ha solo 26 anni, entra nella fortezza-prigione di Civita Castellana per passarvi il resto della vita. È il 1845.
Quello stesso anno un altro giovane scalmanato – anche lui affidato alle cure di uno zio bigotto, ultraconservatore, fedele alla corona viennese – viene iscritto al collegio militare di San Luca a Milano. È un collegio austriaco, l’ideale per piegare gli istinti ribelli del ragazzo e renderlo suddito fedele della monarchia asburgica. Il cadetto è Carlo Di Rudio e con lui c’è il fratello, Achille. La vita da cadetto non è per niente semplice: i due sono di Belluno, e per quanto Belluno faccia parte del Veneto sotto dominazione austriaca, sono pur sempre italiani. Vengono perciò trattati con aperta ostilità dagli altri ospiti del collegio, per lo più croati e austriaci. Poi arriva il ‘48, Milano è in rivolta, si sente sparare nelle strade, dalle finestre si vedono colonne di fumo salire dai tetti degli edifici, i fuochi dei bivacchi notturni illuminano le barricate. Dal 18 al 22 marzo si consumano le cinque gloriose giornate che portano alla liberazione della città e che intanto costringono il direttore del collegio a trattare con gli insorti per avere la garanzia di poter lasciare il San Luca. Mentre abbandonano Milano, Carlo e Achille toccano con mano gli effetti della dominazione straniera. Assistono prima all’uccisione di una donna incinta e di suo figlio e dopo, a Castelnuovo, vedono un soldato austriaco violentare e uccidere un’altra donna. Ne hanno abbastanza e decidono di vendicarsi. Quella notte giustiziano il militare e poi scappano. La meta è Venezia, che nel frattempo è insorta contro gli austriaci e ha proclamato la Repubblica. Ci arrivano a giugno. A fine ottobre Carlo partecipa a un’epica battaglia a Mestre, presso il palazzo Talia Bianchetti dove si sono asserragliati i soldati austriaci. Il colonnello della Repubblica di San Marco Antonio Morandi, nelle sue memorie, rievoca così l’episodio: «Fin dalle fondamenta il fabbricato scuotevasi e minacciava ruina. Da prima sentissi qualche cupo colpo di fucile; poi porte, mobiglie, usci, cristalli e vetriate infrante cadere in fascio, e far fracasso; poi un acuto tintinnio di ferri, un dimenarsi, e battersi ad arma bianca, indi profondi lamenti, accenti di dolore, ed urli tetri, spaventevoli, precursori di morte al di dentro; e poi, l’improviso apparire de’ nostri sul tetto che volavano quai demoni in cerca d’anime, o di bottino, mentre altri più burbanzosi, spiritati, lordi di sangue affacciaronsi alle finestre a cantar vittoria, vantandosi col dire, “tutto è finito, li mandammo a Dio”. Pochi minuti bastarono a compiere questa orribile carneficina». Uno dei primissimi a saltare il muro di cinta è un mazziniano di 30 anni, armato di pistola e daga, esaltato dalla battaglia. Di Rudio lo vede gettarsi nel cuore dell’orribile carneficina e ne rimane affascinato. È così che conosce Felice Orsini. Che dovrebbe essere rinchiuso nella fortezza di Civita Castellana ma l’elezione del nuovo papa lo ha favorito. Il conclave ha eletto Pio IX e con lui è arrivata l’amnistia. Il nome secolare di Pio IX, per la cronaca, è Giovanni Maria Battista Pietro Pellegrino Isidoro Mastai-Ferretti, lo stesso Mastai-Ferretti che, da vescovo di Imola, ha aiutato Orsini a evitare il carcere dopo l’omicidio del cuoco di famiglia Domenico Spada. In un certo senso, quindi, la Chiesa ha aiutato un paio di volte il sovversivo, repubblicano e anticlericale Felice Orsini. La qual cosa, in verità, gli è del tutto indifferente. Quando Roma si prepara a proclamare la Repubblica e Pio IX è costretto a fuggire a Gaeta, Felice si candida alle elezioni per l’Assemblea Costituente dello Stato Romano, uno stato indipendente, democratico e finalmente libero dal potere temporale del papa.
Nella capitale arriva anche Carlo Di Rudio, che dopo l’esperienza veneziana è pronto a dare il proprio contributo alla causa romana. È al Gianicolo quando si tenta l’ultima e disperata difesa contro l’esercito francese, venuto in soccorso del papa. E di nuovo Orsini e Di Rudio si trovano a dividere il campo di battaglia, a respingere a colpi di moschetto il maledetto invasore. Non dimenticheranno mai il vero responsabile dell’ennesima disfatta repubblicana: Luigi Napoleone Bonaparte, che di lì a poco si farà proclamare imperatore col nome Napoleone III. E questo spiega, almeno in parte, la genesi dell’attentato di Parigi.
Ma intanto Orsini e Di Rudio continuano la loro attività cospirativa progettando insurrezioni tanto pericolose quanto improbabili. Una lunga serie di fallimenti, forse inevitabili forse no, spesso segnati da dilettantismo, ingenuità e faciloneria. Oltre a spie e delatori, bisogna fare i conti con le rivalità fra cospiratori, documenti smarriti o dimenticati, piani approssimativi, scarsa, scarsissima cautela nel condividere le proprie idee. Così, per fare un esempio, Felice Orsini finisce dentro una ricetta culinaria, la n° 235 per l’esattezza, di Pellegrino Artusi. In “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” troviamo le istruzioni per preparare i Maccheroni col pangrattato.

L’autore ci introduce al piatto raccontando il seguente aneddoto: nel 1850 sta mangiando alla trattoria dei Tre Re, a Bologna, assieme ad alcuni studenti. A tavola c’è anche Orsini che parla apertamente e con entusiasmo di una sommossa che presto scoppierà a Bologna. Non ci vuol molto a capire che un progetto così rischioso richiederebbe ben altre accortezze.
«Io nel sentir trattare con sì poca prudenza e in un luogo pubblico di un argomento tanto compromettente e di un’impresa che mi pareva da pazzi, rimasi freddo a’ suoi discorsi e tranquillamente badavo a mangiare un piatto di maccheroni che avevo davanti. Questo contegno fu una puntura all’amor proprio dell’Orsini, il quale, rimasto mortificato, ogni volta che poi si ricordava di me, domandava agli amici: – Come sta Mangia maccheroni? -». L’Artusi conclude rievocando la sua tragica fine, «che tutti conoscono e tutti deplorano». Poi, con uno dei tipici lampi di cui è ricca la sua prosa, si prende una piccola vendetta per quel soprannome. Termina l’aneddoto e passa alla ricetta vera e propria. E lo fa così: «Ritorniamo a bomba. Maccheroni lunghi e che reggano bene alla cottura, grammi 300. Farina, grammi 15. Burro, grammi 60, ecc…».
Ritorniamo a bomba, scrive Artusi, e la bomba è sempre lei: la bomba Orsini. Che prima di fare il suo esordio a Parigi deve attendere che si consumino i disastri di Lunigiana, Sarzana, Massa, e Valtellina. In quest’ultima impresa, guidata da Giuseppe Mazzini in persona, è coinvolto anche Di Rudio. Però, nonostante la presenza del capo, i rivoltosi sono solo una decina invece dei 200 previsti. La reputazioni di Mazzini e del suo partito è ai minimi termini. Orsini, che ha il morale a terra e comincia a dubitare seriamente delle capacità del capo, progetta di arruolarsi nell’esercito austriaco. Lo scopo è quello di fare propaganda patriottica fra i militari. Viene però scoperto, arrestato e rinchiuso nel castello di S. Giorgio a Mantova, l’Alcatraz delle prigioni austriache. Di lì non si esce, non da vivi per lo meno.
Di nuovo in prigione, quindi, in una fortezza dove la vita è durissima. Lo racconta Orsini nelle sue memorie. Ogni prigioniero ha diritto a un sacco di paglia, un lenzuolo e una coperta. Il pasto consiste in 12 once (340 grammi) di pane nero e una minestra di riso e acqua. Chi non rispetta le regole viene bastonato e legato con ceppi e catene. Le acque stagnanti intorno a Mantova rendono l’aria irrespirabile e le febbri malariche uccidono ogni anno un terzo dei prigionieri. Le segrete sono chiuse da due grosse porte ed ogni porta ha tre catenacci di ferro. Quella di Orsini è lunga otto passi e larga quattro. Quanto basta per camminare avanti e indietro e, se possibile, meditare. Meditare su come organizzare la fuga da Alcatraz.
Anche se sembra una missione impossibile, non ha alcuna intenzione di marcire in galera aspettando di essere giustiziato. Ma progettare l’evasione richiede tempo. Per il momento tiene un comportamento irreprensibile e, per sviare ogni sospetto, chiede carta e penna e dichiara di volersi dedicarsi alla composizione di un’opera storica. Una volta conquistata la fama di prigioniero modello, entra in confidenza con i secondini, beve con loro, chiacchiera e intanto, come nulla fosse, butta lì domande sul fossato, sul lago, sui forti, sulle porte della città. Grazie a contatti esterni riceve alcuni libri molto speciali: nel cartone della copertina sono nascosti sei seghetti con cui tagliare le sbarre. Un giorno, al cambio delle lenzuola, si fa trovare disteso a letto e intento alla lettura. Come nulla fosse chiede di lasciare quelle pulite sulla sedia e di venire a ritirare le sporche in un secondo momento. Nel frattempo c’è il cambio turno e le nuove guardie non si accorgono che ha nascosto le vecchie tra il paglione. Prepara intanto della cera impastata con polvere di mattone e carbone, ottenendo un colore simile al ferro ossidato. Con quella nasconde i tagli alle sbarre. E finalmente arriva il giorno della fuga. È il 29 marzo 1956, è passato un anno esatto da quando ha messo piede nella fortezza. Dopo la ronda notturna rimuove le grate, annoda le lenzuola e si cala dalla finestra. Quando pensa di aver raggiunto il suolo si lascia andare. Purtroppo ha fatto male i calcoli e atterra dopo un volo di sei metri. Ferito e stremato deve attendere il mattino, quando due passanti lo aiutano a superare il fossato e a lasciare Mantova. La fuga da Alcatraz è riuscita, e nel più banale dei modi: segando le sbarre e utilizzando le lenzuola come funi. Dal punto di vista dell’immagine, è il colpo più duro inferto alla potenza austriaca, e senza bisogno di pugnali, fucili o bombe.
In Inghilterra, dove decide di rifugiarsi, Orsini è una vera star e la pubblicazione del libro Austrian Dungeons in Italy lo rende, se possibile, ancor più famoso. Chi se la passa male è Di Rudio, anche lui a Londra ma ridotto a fare il giardiniere e l’insegnante d’italiano. Neppure immagina che quell’anno, il 1857, sarà invece cruciale. Viene infatti reclutato da Orsini assieme ad altri due complici: Carlo Gomez e Andrea Pieri. Niente più Mazzini però, e niente trame fantasiose o velleitarie sollevazioni popolari. Un unico obiettivo: uccidere Napoleone III.
Intanto, dall’altra parte dell’oceano, entra in scena un curioso personaggio. Ha appena messo piede, a 18 anni, nell’Accademia Militare di West Point. È George Armstrong Custer, uno dei più iconici protagonisti dell’epopea western. Gli esordi, come per Orsini e Di Rudio, non sono incoraggianti. È insofferente alla disciplina, svogliato nello studio, permalosissimo, insuperabile collezionista di note di demerito. Si diploma un anno prima del previsto, nel 1861, grazie allo scoppio della guerra di secessione: ma è il peggiore della classe. Fa carriera e si distingue per il coraggio nelle cariche a cavallo, prima contro i confederati prima e poi contro gli indiani. Ma resta un personaggio controverso, pieno di sé, ambizioso fino all’eccesso, senza troppi scrupoli. Forse anche per questo, benché universalmente noto, gli vengono dedicati pochi film degni di nota. Il migliore è quello del regista Raul Walsh, They Died with Their Boots On (1948), in cui viene interpretato da un affascinante Errol Flynn all’apice della carriera. La pellicola è notevole, con scene spettacolari e musiche travolgenti, peccato abbia poco a vedere con la realtà dei fatti. D’altronde Cavallo pazzo è interpretato da Anthony Quinn.

Nel 1968 Robert Siodmak gira il modesto Custer of the West (1968), vagamente più attendibile e in cui, almeno, il generale appare come un uomo più interessato al mito, proprio e del west, che alle vite umane sacrificate nel corso delle varie battaglie.
Sui giornali americani, intanto, tiene banco una notizia alquanto allarmante: per uccidere il neo eletto presidente Lincoln e impedirgli di realizzare il progetto per l’eliminazione della schiavitù gli anti-abolizionisti del sud hanno fabbricato diecimila bombe. Bombe Orsini, naturalmente. Sono passati appena 3 anni dall’attentato a Napoleone III e la fama dell’ordigno ha già valicato l’Atlantico. La morte di Orsini, ghigliottinato assieme a Pieri, ha garantito alla bomba una diffusione globale e duratura.
Fra l’altro, benché ispirato da un contesto geografico e politico completamente differente, ossia l’Italia di inizio anni ’70, l’album “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè introduce nella storia della musica un personaggio contemporaneo che però sarebbe piaciuto a Felice Orsini. La traccia numero 7, il cui titolo è “Il bombarolo”, segue i passi di un impiegato che ha deciso di compiere un gesto clamoroso, far esplodere una bomba davanti al Parlamento. Mentre si avvia sul luogo dell’attentato il bombarolo pensa:
Profeti molto acrobati
Della rivoluzione
Oggi farò da me
Senza lezione
Come non pensare a Mazzini, il profeta del Risorgimento, da cui Orsini ha preso le distanze, considerandolo ormai del tutto incapace di progettare ed eseguire un’azione in grado di innescare la rivoluzione? E più avanti:
Così pensava forte
Un trentenne disperato
Se non del tutto giusto
Quasi niente sbagliato
Cercando il luogo idoneo
Adatto al suo tritolo
Insomma il posto degno
D’un bombarolo
Nel 1849 Orsini ha esattamente trent’anni ed è in quell’anno che l’esercito francese manda in frantumi il sogno della Repubblica Romana. Si tratta di una colpa che più tardi, dopo essere fuggito dalla prigione di Mantova, lo spinge a cercare il luogo idoneo al suo tritolo, o meglio, come abbiamo visto, al suo fulminato di mercurio: l’ingresso dell’Opéra Le Peletier a Parigi. E per finire:
C’è chi lo vide ridere
Davanti al Parlamento
Aspettando l’esplosione
Che provasse il suo talento
C’è chi lo vide piangere
Un torrente di vocali
Vedendo esplodere
Un chiosco di giornali
L’impiegato fallisce nel suo intento, anziché far esplodere il Parlamento la bomba distrugge un chiosco di giornali. De Andrè però non spiega perché l’attentato fallisce. Chi è stato davanti a Montecitorio sa che la piazza non è su un monte Citorio anche se, in effetti, presenta una certa pendenza. Ecco, una bomba difettosa, come può esserlo un ordigno artigianale (il pinocchio fragile della canzone), se di forma sferica, come la bomba Orsini, può rotolare giù dall’ingresso del Parlamento e finire contro un chiosco di giornali. Evitando così la strage che invece si consuma in rue Le Peletier. E per la quale, il 13 marzo 1858, viene montata la ghigliottina davanti alla prigione della Roquette.
Non sono ancora le 7 ma una grande folla si è già radunata per assistere allo spettacolo. Pieri, Orsini e Di Rudio vengono preparati per l’esecuzione (Gomez ha subito una condanna ai lavori forzati a vita). Tolte le scarpe, il colletto della camicia viene tagliato con le forbici, così da lasciare il collo scoperto. Il primo a essere ghigliottinato è Pieri. Poi è la volta di Orsini, che un attimo prima di perdere la testa grida: «Viva l’Italia! Viva la Francia!». È il turno di Di Rudio ma, prima che possa salire le scale del patibolo, c’è un colpo di scena. Arriva un ordine dell’imperatore: la pena di morte è stata commutata in ergastolo, da scontare nella prigione della Cayenna, nella Guyana francese.
E qui comincia un’altra storia, talmente rocambolesca da essere implausibile perfino come trama di un film. Di Rudio e Gomez arrivano nella colonia penale a dicembre. È un posto tremendo, all’altezza della fama. Caldo asfissiante, umidità, insetti voraci, cibo immangiabile. In queste condizioni devono abbattere alberi per permettere la costruzione di una strada che non porta da nessuna parte. È un lavoro faticosissimo ma nel tragitto che bisogna percorrere dalle prigioni alla foresta si accende la speranza della fuga. Uno dei tronchi abbattuti può essere scavato per ricavarne una canoa che poi, spinta nel vicinissimo fiume Oyapock, permetterebbe di navigare fino al Brasile. Benché a rilento il piano procede finché un’epidemia di febbre gialla manda tutto a monte. Di Rudio, infatti, viene trasferito sull’Île Royale e da lì scappare è ancora più difficile. La vigilanza è ferrea e, ammesso di riuscire a eluderla, bisognerebbe affrontare prima la giungla e poi il mare. Ipotizzando di sopravvivere alla giungla e alle letali formiche che la abitano, capaci di spolpare un uomo, resterebbe il problema dell’oceano. E qui, oltre alle violente burrasche, fanno buona guardia gli squali. Ma Di Rudio, come Orsini nella fortezza di Mantova, non perde le speranze. Sa che ci vogliono dei soldi, bisogna corrompere le guardie e comprare delle provviste. Perciò si avvicina a un ex religioso, uno che nasconde un po’ di denaro in una vecchia bibbia di cuoio, e lo convince a tentare la fuga. Fa poi lo stesso con un sarto e un ex marinaio, il primo cucirà la vela della barca su cui fuggiranno, il secondo la governerà. La barca è pronta, bisogna solo rubarla ai pescatori che si aggirano nelle acque intorno alla prigione. Dopo un anno di preparazione tutto è pronto. All’ultimo minuto, però, l’ex religioso si tira indietro. Gli altri, dopo un primo sbandamento, decidono di proseguire. Una volta in acqua raggiungono la foce dell’Oyapock e si dirigono in mare aperto. Dopo cinque giorni di navigazione e molte miglia percorse nella nebbia e senza alcuno strumento per orientarsi, dopo essere scampati a una tempesta e aver patito la fame e la sete, i fuggiaschi vengono recuperati da una nave inglese. Accolti nella Guyana britannica, Di Rudio si dichiara prigioniero politico. Questo gli garantisce il diritto a non essere riconsegnato nelle mani dei francesi. E così, nel febbraio 1860, contro ogni logica e a dispetto di qualunque pronostico, ritorna a Londra. Ma Di Rudio non è Orsini, non viene acclamato come una star, non viene invitato a tenere discorsi e a partecipare a conferenze. Le sue condizioni economiche sono talmente disperate che Mazzini, con cui è ancora in contatto, gli suggerisce di imbarcarsi per l’America.
Quando Carlo Di Rudio sbarca a New York – e si fa registrare col nome di Charles De Rudio – è già in corso la guerra di Secessione. Non ha grandi alternative perciò si arruola nell’esercito nordista, dove entra come soldato semplice. Ne esce sottotenente ma il grado non viene confermato perché, alla visita militare, risulta inidoneo a causa della “ritrazione del testicolo destro”. Una diagnosi che, dal punto di vista dell’immagine, contrasta un po’ con la fama di guerriero abile e spavaldo. In ogni caso non gli mancano le occasioni per dimostrare il proprio valore. Lo fa, per esempio, nel Settimo Cavalleggeri del generale Custer, reggimento al quale viene assegnato nel 1869. Per la verità l’italiano non è molto simpatico al mitico comandante, che lo considera uno sbruffone e un arrogante. Troppo simili, evidentemente. E sarà la sua fortuna. Il 25 giugno 1876 partecipa alla battaglia di Little Bighorn, ma anziché essere assegnato al battaglione di Custer, finisce in quello del maggiore Marcus Reno. Il primo, composto di 211 uomini, viene spazzato via dai guerrieri Lakota, Cheyenne e Arapaho guidati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto. Non si salva nessuno. Il secondo perde la metà degli uomini. Fra i sopravvissuti c’è anche Di Rudio, al quale la fortuna continua a sorridere. Torna indenne anche da altre spedizioni militari, contro i Nasi Forati e anche contro gli Apache Chiricahua di Geronimo. Curioso destino: dopo aver lottato una vita contro l’oppressore straniero in Italia, si ritrova a combattere i nativi americani per conto di un esercito che sottrae loro le terre e pretende di rinchiuderli nelle riserve. Viene congedato nel 1896, a 64 anni, col grado di Maggiore. Ma c’è ancora il tempo per un ultimo colpo di scena. Nel 1908 fa una rivelazione, poi ripresa da un articolo del Corriere del Sera: la sera dell’attentato a Napoleone i congiurati erano 5, non quattro. E il quinto misterioso personaggio, del quale lo stesso Orsini rifiutò di fare il nome, era Francesco Crispi.
Perciò, stando alla versione di Di Rudio, dopo aver insegnato ai cospiratori mazziniani come si costruiscono le bombe, dopo averne addirittura lanciata uno contro Napoleone III (almeno dando retta alla deposizione di Orsini che, senza nominarlo, attribuisce al quinto attentatore il lancio della granata) dopo aver partecipato alla spedizione dei Mille, dopo essere stato un convinto anticlericale e uno strenuo oppositore del papa, non soltanto Francesco Crispi diventa monarchico, ma riesce a farsi nominare Ministro degli Esteri, Ministro degli Interni e perfino Presidente del Consiglio del Regno d’Italia.
E ancora, per quanto ispirato da un contesto geografico e politico completamente differente, viene in mente l’album “Storia di un impiegato” e la traccia “Nella mia ora di libertà”, che poi è l’ultima, quando il bombarolo, condannato per l’attentato e forse consapevole del proprio errore, riflette sulla natura del potere:
Certo bisogna farne di strada
Da una ginnastica d’obbedienza
Fino ad un gesto molto più umano
Che ti dia il senso della violenza
Però bisogna farne altrettanta
Per diventare così coglioni
Da non riuscire più a capire
Che non ci sono poteri buoni
Da non riuscire più a capire
Che non ci sono poteri buoni.