Gente per cui le arti stan nei musei

el grecoNon voglio tornare sulla questione dei murales di blu, perché ha già detto tutto il compagno Mauro. Ha espresso la linea della redazione con la consueta fermezza e io sono totalmente d’accordo con il compagno Mauro, il quale peraltro ha colto alla perfezione il messaggio del comunicato del Wu Ming[1], che giustamente ci spiega il significato del gesto di blu, criticando le critiche borghesi che gli sono state rivolte. E infatti io ero già d’accordo con il comunicato del Wu Ming senza nemmeno averlo letto e l’avevo detto al compagno Mauro, che del resto mi aveva capito senza nemmeno ascoltarmi.

Che è un fatto di rivoluzione, non di arte. Non solo di arte. E, se posso aggiungere una chiosa a quanto illustrato dal compagno Mauro, mi permetterei solo di precisare che non si tratta di discutere di bene pubblico o bene privato, perché già discutere di bene pubblico e bene privato intanto denota interiorizzazione del concetto di mercificazione del prodotto creativo ma soprattutto perché mette in secondo piano quello che è il cuore della questione e che i compagni del Wu Ming chiamano con magistrale espressione “colpo di arte-guerriglia”. E tantomeno si tratta di fruizione all’interno di istituzioni pubbliche o private. Se l’arte di blu fosse esposta in un Museo pubblico e magari pure gratuito per i lavoratori e i pensionati e gli studenti e i disoccupati, diciamo pure per tutti, cosa cambierebbe? Se riducessimo tutto a una questione di “pagare il biglietto” bella rivolta di scrocconi pezzenti sarebbe!

Anche un museo pubblico costa e qualcuno quel prezzo lo paga sempre e comunque.

E allora la questione diventa chi e come e perché lo paga e quanto lo paga, quanta parte del reddito pubblico si destina all’arte (sottraendolo ad altro) e chi lo decide e come lo decide e con chi si consulta per deciderlo eccetera.  E così discutendo il gesto si riduce, si ossifica, si deteriora. Perché poi viene da sé chiedersi chi decide cosa merita di stare in un museo, cosa è arte e cosa no e così via, a colpi di comitati centrali, bastonate e chirurgia sperimentale. E magari ti viene pure da rimpiangere Roversi Monaco e quelli che se paghi il biglietto vedi quello che vuoi, se lo vuoi pagare, sennò puoi andare a vederti Bologna-Carpi in curva con lo sconto bambini, che costa quasi uguale.

L’arte è un gesto, come la rivoluzione. Non tutti i gesti sono rivoluzionari, soltanto alcuni. Dipende dall’intenzione artistica, kunstwollen. E come l’intenzione artistica è l’arte, anche l’intenzione rivoluzionaria è rivoluzione. E la rivoluzione non sta là per essere staccata dal suo milieu/moment e portata in camere asettiche dove ammirarne le sfaccettature con la luce giusta e la cornice adatta. Non è un pranzo di gala, si sa, qualcuno può anche farsi male, tutto sta nell’intenzione. Se tu per esempio sciogli un’assemblea costituente votata dal popolo perché il tuo partito è in minoranza non è detto che sei un rivoluzionario.

Puoi anche essere un fascista. Dipende dall’intenzione. E se vi sembra una morale da Cafri, avete ancora da capire, della rivoluzione[2]. E forse anche dell’arte.

Il gesto artistico-rivoluzionario è l’arte che ricopre la bruttezza dell’urbanizzazione capitalista, esprimendo il bello che è vitale oltre il brutto perché immagina quello che non c’è ma ci potrebbe essere e costringendo l’occhio a vedere la finzione, proietta il differente, prefigura e promette il cambiamento.

Questa promessa, che al contempo è sottrazione dalla vita ordinaria[3], è ciò di cui gode l’occhio e si eccita lo spirito, però senza fuggire in paradisi artificiali ma cogliendo la contraddizione del presente.
E allora come ci insegna giustamente la brillante provocazione del compagno Mauro, la questione non è se vai o non vai a vedere una mostra di una cassa di risparmio, ma se ti piace o non ti piace la rivoluzione.
E se vogliamo esser seri, come richiede il Wu Ming, la questione è semmai pensare se è il momento di museificare i murales, se il loro intrinseco valore rivoluzionario ha ceduto definitivamente il passo al valore estetico esteriore e neutro che puoi ammirare come un ateo ammira una crocifissione di El Greco. O se stiamo ancora a soffiare sulla fiammella[4].

E c’è pure chi pensa che si può essere rivoluzionari nell’azione, non nel gesto, e che come l’arte anche la rivoluzione possa trasformarsi continuamente e restare permanente. Ma questo è un sogno di pochi.
Con questo non voglio dire che l’arte deve essere per forza rivoluzionaria né che la vita debba essere necessariamente artistica. In realtà non voglio dire nulla, se non che hanno ragione il compagno Mauro e il Wu Ming.
Per il resto, di arte ce n’è tanta.
Si può sempre andare a fare un viaggio in Giappone o restare ad abbaiare nel pagliaio[5].

[Mario Mastrocecco]

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Note
[1] Wu Ming, BLU i mostrificatori e le sfumature di grigio, Internazionale, 7.3.2016
[2] Lev Trotsky, La loro morale e la nostra, 1939, ora in Nuove Edizioni Internazionali, Milano, 1995
[3] Duran Duran, Ordinary World, in Duran Duran, 1993
[4] Simone Sabatini, Come usciamo del periodo BLU, il Corriere di Bologna, 15.3.2016
[5] Paolo Conte, Sijmadicandhapaijiée, in Una faccia in prestito, 1995

12 commenti

  1. Graziano

    Solo tre cosette:
    1. Al compagno Mauro vogliamo bene tutti
    2. Le belle e fini tesi del compagno Mauro non sono necessariamente in accordo con quelle del wu Ming
    3. La questione mi sembrava non fosse sulla concezione di bene pubblico e privato, sulla quale comunque la compagna Spaz ha pronunciato parole definitive
    4. Ho ragione io ma non posso passare le giornate a spiegarvi come stanno le cose
    5. W l’arte W la rivoluzione
    (ciascuno è libero di scegliere le tre che preferisce, io per esempio personalmente scarterei innanzi tutto la prima)

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